«Noi continuiamo l'evoluzione dell'arte». Un'affermazione, una promessa, una sfida. In sintesi: un manifesto, Blanco per la precisione. Era il 1946 a Buenos Aires e Lucio Fontana l'anno dopo sarebbe rientrato in Italia dove già era di casa. A Milano aveva studiato all'accademia di Brera sotto l'egida, niente meno, di Adolfo Wildt, partecipato alla Triennale ed esposto alla galleria del Milione ma anche alla Quadriennale di Roma e alla Biennale di Venezia, incontrando le parole dei critici più à la page da Argan a Persico.
A quel manifesto ne sarebbero seguiti altri - in primis quello dello Spazialismo nel '47 - a scandire la straordinaria parabola creativa di Fontana, le cui occasioni sono ritessute nella trama coloratissima dell'antologica ordinata a palazzo Ducale da Sergio Casoli ed Elena Geuna. Galeotto il quarantennale dalla sua scomparsa - nato in Argentina a Rosario de Santa Fé nel 1899 si spegne a Varese nel '68 - per presentare una nuova rassegna, che ha tutte le doti della scommessa vincente. Nota fondamentale oggi per Genova, che cerca di ritrovare il proprio baricentro anche attraverso l'arte contemporanea, che in un passato non troppo remoto, gli anni '70, l'ha vista teatro di happening da manuale.
Ed è proprio da manuale la mostra «Lucio Fontana, Luce e colore» (fino al 15 febbraio 2009) completa di un carnet di incontri che spaziano da Daverio a Fuksas, di corsi e concerti. Centotrenta le opere di una lettura che corre su tre fili di Arianna - luce, colore, ambienti - per ricomporre i passi di un'avventura lunga oltre quattro decenni. Cicli tematici e cronologia abdicano a favore dell'esperienza immaginifica del colore per sottolineare come Fontana avesse colto precocemente le potenzialità di quel monocromo che già era stato sfida fatale, tra gli altri, per Malevich e Rodchenko. E così tra nero, rosa, oro, rosso, bianco e giallo ecco buchi, tagli, pietre, teatrini ed ellissi riuniti in un unico abbraccio, quello del colore. Che svela vastità e consonanze di un tête-à-tête con la dimensione fenomenologica dello spazio giocato in punta di fioretto con il segno. Il colore che stringe la materia delle esperienze plastiche - «I critici dicevano ceramica. Io dicevo scultura» afferma dopo aver già operato ad Albisola e a Sèvres - e che sull'orizzonte conoscitivo della tela lo conduce a bucarla, tagliarla, graffiarla, vestirla di lustrini o di pezzi di un cielo di vetro. E a riscriverne le coordinate fino ad approdare agli «ambienti spaziali» tra sonorità da luce di Wood e volute di neon, con la carica eversiva di un futurista e lo spregiudicato rigore di un maestro barocco. Per sondare e costruire nuovi universi, perché no, sinestetici. Un'alterità concreta, tellurica e siderea, antropologica e tecnologica. Tanto raffinata da essere segno primigenio e dunque linguaggio e poter ricordare: «Una farfalla nello spazio eccita la mia fantasia; liberatomi dalla retorica, mi perdo nel tempo e inizio i miei buchi».
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