Poi sorridi, fai per andare via e neppure taccorgi di pronunciare le solite frasi di circostanza. Invece stai dicendo ciò che odi sentir dire e limbarazzo assume le frequenze stonate del chiasso tuttattorno. Chiudi gli occhi un istante e potresti essere a un concerto, a un ballo, comunque a una festa. Li riapri e sei invece di fronte a una donna non più giovane, però distinta e fiera con lo sguardo triste che le incornicia il viso. Ha lacrime in bilico, pronte a seguire la strada che sanno. «In fondo» fa capire, «è stato così ad Atene quattro anni fa, ed è così oggi a Pechino». Vicino a lei il marito, il signor Morandi. Prova a farle coraggio mentre laggiù in pedana, ma proprio tanto giù, lontano lontano, un ragazzo muscoloso li cerca con lo sguardo dopo aver concluso il proprio esercizio. Sembra un soldatino di piombo con i pantaloni elasticizzati bianchi e la canotta blu. «Comè distante...» dice lei parlando del suo Matteo. Perché nel caos olimpico, quasi mai i genitori trovano posto vicino per ammirare e accudire con gli occhi le loro creature. Mamma e papà Morandi se ne stanno seduti nelle ultime file, dove il soffitto dellIndoor Stadium di Pechino quasi sappoggia sulle teste.
Incredibile la ginnastica artistica schiava degli umori dei giudici. Un gruppetto di ingiacchettati e incravattati ha appena deciso che quel ragazzo non merita la medaglia di bronzo perché è italiano come Jury Chechi ma non è Jury Chechi. Però Matteo dice grazie lo stesso, anche se lhanno di nuovo rispedito allinferno, di nuovo in quellanominato solo di tanto in tanto illuminato da qualche bella soddisfazione. Con lui hanno rispedito luomo e la donna invisibili che mi stanno accanto. Matteo guarda ancora verso il soffitto in direzione nostra, guarda e muove impercettibilmente il viso. Papà e mamma ricambiano con un gesto a metà fra la carezza e una coccola, come a dire «vede, ci sta cercando».
Non avrei mai dovuto sedermi accanto a loro. Volevo raccontare la vigilia olimpica della famiglia Cassina, massì, di Igor, il nostro campione della sbarra; volevo farlo assistendo alla finale degli anelli assieme ai suoi genitori, a Carlo, a Tiziana, a sua sorella Mara. Ho invece incontrato mamma Morandi e papà Morandi con il figlio in gara. Mai più. Con nessuno. Mai più violare lintimità di chi segue un figlio durante la sfida della vita, quando la gara è più gara delle altre e la vita una vita in disparte. Mai più. Perché è una lezione a cui non si è pronti e che nessuna olimpiade insegna, che nessun podio racconta. Perché da mesi, noi, cosiddetto grande pubblico, Matteo Morandi neppure lo ricordiamo più; ma Dio solo sa quanto cuore serva per andare avanti a vedere il figlio spezzarsi la schiena in palestra e quanta forza ci voglia per trepidare per il proprio ragazzo in attesa di quella medaglia che non arriva mai. Una lezione grande, la loro, che neppure De Coubertin ha immaginato mai, preso comera dagli eroi che vivevano in campo e non da quelli che soffrivano nascosti fra il pubblico. La lezione di chi si stringe nelle spalle, di chi prende fiato e abbraccia la moglie, per dirle «vedrai, magari la prossima volta
è uningiustizia ma la ginnastica è fatta di giudici, si sa
».
Una lezione appresa anche da chi si alza, saluta e luno e laltra, fa un bel sorriso e magari dice anche «ma che vergogna, mi dispiace tanto per vostro figlio» e poi aggiunge «però scusatemi, adesso deve correre giù nella zona mista dove sintervistano gli atleti, perché se faccio tardi mi scappano via tutti
Ma non siate così giù, siate invece fieri, ci sono madri, ci sono padri che un figlio alle olimpiadi non lo avranno mai...». «Grazie, grazie davvero» rispondono con un sorriso triste quel papà e quella mamma.
Pochi minuti dopo, nellammucchiata della zona mista, eccoci tutti a parlare con lallenatore degli azzurri, tutti a intervistare Andrea Coppolino, il compagno di Matteo giunto davanti e ancor più vicino al podio. Per Matteo, invece, solo poche parole.
Ho riletto larticolo di allora. Gli avrò dedicato giusto due righe, forse poco più. Non faceva notizia.
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