Polanski premiato a Berlino: né risarcimento né scandalo

Forse la giuria si è unita a chi difende il regista "senza se e senza ma". Però sbaglia chi boccia a priori un film perché l’autore è immorale

Polanski premiato a Berlino: né risarcimento né scandalo

E così Roman Polanski ha vinto l’Orso d’argento al Festival del cinema di Berlino, miglior regista grazie al film The Ghost Writer. Molti hanno avuto l’impressione che il premio sia stato un «risarcimento» per la vicenda giudiziaria che vede Polanski da mesi agli arresti domiciliari in Svizzera per una vicenda di stupro risalente al 1977. Una storia squallida di abuso su una tredicenne con ausilio di stupefacenti consumatasi negli Stati Uniti. Polanski si dichiarò colpevole, fu condannato nel 1978 e si rifugiò in Francia. Tutto bene, fino al viaggio in terra elvetica, dove un giudice ha applicato la legge e fermato il reprobo su richiesta della procura di Los Angeles. Come è noto, il mondo del cinema insorse come un sol uomo in difesa del povero violentatore. E giù dichiarazioni, sottoscrizioni, appelli in favore del «perseguitato». Una palese sciocchezza poiché la legge non ammette deroghe per motivi artistici.

La giuria di Berlino ha dato l’impressione di unirsi al codazzo dei sostenitori del reo confesso. Se così fosse, sarebbe davvero un fatto stupido e triste. Certamente rimarrà l’ombra del sospetto che il film abbia trionfato per il motivo sbagliato, anche se una volta giunto nelle sale dovesse rivelerarsi di buona fattura. D’altro canto, anche la reazione indignata (e preventiva, cioè senza nemmeno aver visto la pellicola) di fronte al premio lascia perplessi, sembra uguale e contrario rispetto a quello di chi avrebbe deciso di incoronare il regista.

L’opera d’arte chiede di essere giudicata in autonomia rispetto alla biografia del suo creatore. Se applicassimo il principio contrario a questo, e valutassimo film, libri, quadri, sinfonie, canzonette in base alla virtù dell’autore, potremmo tranquillamente buttare nella spazzatura migliaia e migliaia di capolavori.

Charlie Chaplin non era uno stinco di santo. La propensione per orge e festini, unita alla passione per donne giovani, diciamo pure giovanissime, è cosa notissima. Gli studios cercarono invano di insabbiare le relazioni con Mildred Harris, anni 14, o Lita Grey, anni 15. Non per questo Il monello è meno toccante. Se poi volete una panoramica completa di perversioni e malefatte hollywoodiane, munitevi dell’opera omnia di Kenneth Anger.

Ma proseguiamo. Jean Genet era un galeotto. Caravaggio un assassino. Burroughs un pazzo omicida. James Ellroy un ladruncolo. Non è il caso però di dare fuoco al Miracolo della rosa, sfregiare la Cena di Emmaus, o anche, più semplicemente, sostenere che Il pasto nudo o La Dalia nera non valgono un fico secco.

Se lasciamo il reparto criminalità e ci addentriamo nel terreno minato del razzismo o della politica, le cose non cambiano molto. Louis Ferdinand Céline era uno spregevole antisemita e ha scritto ripugnanti libelli razzisti. Viaggio al termine della notte e Morte a credito restano romanzi inarrivabili. Jean Paul Sartre ha taciuto sui Gulag e cantato le lodi di Mao. La nausea e Il muro sono imprescindibili. Leni Riefenstahl era pappa e ciccia con Hitler e Goebbels. Il trionfo della volontà e Olympia sono film fenomenali, nonostante abbiano l’aggravante di essere pura propaganda. Mel Gibson, ubriaco fradicio, ha coperto di insulti gli ebrei di fronte a un allibito agente della polizia. La Passione di Cristo o Apocalypto allora sono brutti? Alcuni «maestri» hanno mostrato un’incoerenza davvero «magistrale». Roberto Rossellini nel 1943 mandava nelle sale cinematografiche una tirata anticomunista, L’uomo della croce, tratta dal soggetto di Asvero Gravelli, squadrista e razzista di vaglia. Tempo sei mesi e un armistizio, nell’estate del 1944 preparava la sceneggiatura di Roma città aperta con un bel salto triplo nella collocazione politica. Non credo però sia un problema per gli amanti sinceri della settima arte.

Naturalmente, questo elenco non vuole assolvere l’uomo Polanski. Tutt’altro.

Proprio perché un conto è l’uomo e un altro il regista, Polanski deve pagare fino in fondo per le sue colpe. Ma l’opera d’arte deve essere giudicata per quello che è. Altrimenti si spalanca la porta al conformismo di chi non guarda i film ma solo le facce di chi li ha girati.

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