Politica divisa dal risiko

Forse a qualcuno non è ancora chiaro che ciò che sta avvenendo nella finanza italiana è una rivoluzione. Non si tratta del controllo di due banche di medie dimensioni (Bnl e Antonveneta). In fondo la storia di strutture di potere che intorno alle banche nascono e muoiono non è inedita. E non si tratta neanche del controllo del Corriere della Sera, i cui fili ad alta tensione spesso sono stati oggetto del desiderio. Il problema è che a tutto ciò occorre sommare la fragilità della Banca d’Italia, l’attenzione speculativa verso Mediobanca e i rumor che si intensificano sulle Generali. Insomma, un intero sistema di relazioni e rapporti è alle corde. Si sta rompendo un equilibrio che appare davvero fragile. E come spesso drammaticamente avviene in Italia, con il contributo determinante della magistratura. Sembra il parto della «seconda Repubblica della Finanza».
Che poi la prima bordata sia stata lanciata da Ricucci o Statuto, poco importa. E altrettanto meno conta capire chi ha fornito la miccia. L’aspetto fondamentale della questione è sempre il medesimo: la debolezza di un establishment finanziario e industriale che ha saputo rinnovarsi poco, che non ha le risorse per essere autonomo e che si è affidato quasi esclusivamente a una tutela bancaria.
Non stupisce che in questo scenario vengano alla luce le contraddizioni più intime di quella politica che ha saputo meglio costruirsi un rapporto con le istituzioni e i luoghi della Finanza. A parole tutti concordi nel garantire il rispetto delle regole. Nei fatti tutti impegnati a modellare le regole sui propri protagonisti.
Era interessante ieri leggere l’intervista parallela tra Rutelli e D’Alema, rispettivamente su Corriere della Sera e l’Unità. Con il primo che esorta «la sinistra a prendere le distanze dalle scalate», in piena linea montezemoliana. E il secondo che piccato osservava: «Certe campagne si conducono perché, immagino, si vogliono tutelare degli interessi specifici, di persone che ritengono che i loro interessi personali sono una nobile battaglia in difesa del mercato, mentre gli interessi degli altri sono un ignobile complotto». E Rutelli che ricorda la scalata di Colaninno a Telecom come «un errore», mentre D’Alema la rivendica come suo successo da presidente del Consiglio. In questo scenario da fine di un’epoca, manca del tutto un punto di riferimento.

Tanto più che la crisi della Finanza si inserisce in una dura crisi dell’impresa industriale di grandi dimensioni. Con la scomparsa della Fiat, come soggetto aggregante, e la crisi generalizzata della manifattura, si è creato un vuoto, che probabilmente neanche il vecchio Cuccia e la sua Mediobanca avrebbero potuto riempire.

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