
Che vada in porto il Piano A o il Piano B, sull'ex Ilva di Taranto sta per esplodere una bomba occupazionale. Se infatti il sindaco di Taranto, Piero Bitetti spiega che la rinuncia alla produzione Dri (piano a) non sarebbe un problema così grande perché lascerebbe a casa circa 700 addetti, omette di spiegare cosa comporterebbe il Piano B ovvero scegliere solo i tre forni elettrici per la decarbonizzazione dell'acciaieria e non anche i tre impianti di preridotto, collegati ai forni che però hanno bisogno della nave di rigassificazione per essere alimentati. «Passare da un sistema di 6 milioni di tonnellate di acciaio da ciclo integrato (altoforno+convertitore) ai cicli elettrici comporterebbe un massimo di 3.500 dipendenti (comprese le lavorazioni a valle) e personale in eccesso non sarebbe sopportabile dall'impianto, quindi il vero sacrificio occupazionale sta lì», spiega al Giornale il professore del Politecnico di Milano ed esperto del settore siderurgico Carlo Mapelli.
Esemplificando, dunque, nel Piano A con forni elettrici e Dri avremo un massimo di 4.500-5.000 addetti e nel Piano B appena 3.500. Due dati rilevanti alle luce del fatto che i dipendenti Ilva sono 10mila e che si dovranno dunque gestire tra i 5.000 e i 6.000 esuberi. Che poi il governo stia studiando ammortizzatori sociali, ricollocamenti o altre forme di sostegno si può intuire, ma il tutto andrà verificato con i sindacati oggi e sicuramente la strada per un accordo non sarà in discesa.
«Non accetteremo di fare le comparse o prendere atto di ciò che decideranno il governo e gli enti locali. Prima di sottoscrivere qualsiasi accordo vogliamo sapere come si difendono tutti i posti di lavoro, se ci sono le condizioni del risanamento ambientale e della continuità produttiva, discutendo del piano industriale. Per questo abbiamo chiesto un incontro urgente al ministro Urso e alla presidenza del Consiglio» per oggi, ha detto il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella. «Siamo di fronte a una situazione drammatica, davanti a un bivio finale di una vertenza che da tredici anni colpisce migliaia di lavoratori e intere comunità. O si pongono serie e concrete condizioni e garanzie occupazionali, ambientali e produttive, condivise da tutte le parti per rilanciare l'ex Ilva oppure si arriverà a una fermata definitiva, con un disastro senza precedenti», ha proseguito.
Intanto venerdì ha fatto irruzione sulla scena il presidente di Confindustria. «Per far andare l'Ilva serve il gas, fino a quanto vogliamo continuare a dire che la faremo andare a idrogeno? È impossibile, serve il gas, non si fa con l'elettrico. Bisogna risolvere dei problemi strutturali ma solo se hanno la volontà di farlo» ha detto Emanuele Orsini, intervenuto alla conferenza nazionale del Pd. «Noi - ha osservato poi il numero uno di viale dell'Astronomia - abbiamo eccellenze italiane, aziende leader, come Fincantieri, che ci invidia tutto il mondo.
Vogliamo incrementare la difesa? Il ferro servirà. Questo Paese e l'Europa hanno bisogno di avere una produzione italiana ed europea di acciaio. Poi è chiaro che mi preoccupano i lavoratori ma oggi, lì, ci sono 757 restrizioni ambientali. Dobbiamo dircelo».