
“Per oltre sessant’anni, la legge fallimentare in Italia è stata quella del Regio Decreto 267 del 1942, un testo nato in un’epoca in cui l’agricoltura e il latifondo erano al cuore del sistema produttivo e le imprese commerciali erano ancora un’eccezione. In quel contesto, il fallimento aveva una funzione sanzionatoria: l’impresa che non ce la faceva veniva semplicemente espulsa dal mercato, senza molti margini di recupero”.
Così spiega Pierpaolo Sanna, consigliere nazionale dei commercialisti italiani con delega alla Crisi d’Impresa, tracciando un primo bilancio del lungo cammino legislativo che ha trasformato il modo in cui guardiamo alle difficoltà aziendali, a margine della due giorni, venerdì 30 e sabato 31 maggio, che si terrà a Forte Village di Santa Margherita di Pula, promosso dall’Odcec di Cagliari.
“Nella seconda metà del Novecento, soprattutto a partire dagli anni ’70, si cominciò finalmente a riconoscere l’importanza della continuità aziendale, in particolare nelle grandi imprese, dove il fallimento significava la perdita di migliaia di posti di lavoro. Tuttavia - aggiunge Sanna -, è stato solo con la riforma del 2005–2007 che sono stati introdotti strumenti alternativi al fallimento: il concordato preventivo, gli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis e i piani di risanamento ex art. 67 della legge fallimentare. Strumenti che, però, troppo spesso sono stati utilizzati per svincolarsi più rapidamente dal processo fallimentare, anziché come veri piani di rilancio”.
Il passo successivo arrivò nel 2012, con il cosiddetto “decreto Sviluppo” e il lavoro della Commissione guidata da Francesco Rordorf: nacque il concordato in bianco, un meccanismo nato per favorire ancora di più la possibilità di rientro nei binari della continuità anche in condizioni di crisi avanzata.
“L’apice di questa evoluzione normativa è la riforma del 2017 - prosegue Sanna -, che ha rimosso il termine ‘fallimento’, sostituendolo con la più neutra ‘liquidazione giudiziale’, e ha affidato al Governo il compito di riscrivere interamente la disciplina dell’insolvenza, inaugurando un nuovo approccio all’impresa in difficoltà.
Oggi, secondo Sanna, il commercialista emerge come figura chiave: non solo esperto contabile, ma consigliere strategico chiamato a guidare l’imprenditore nell’individuazione tempestiva dei segnali di crisi, nell’elaborazione di piani di risanamento credibili e nell’utilizzo corretto degli strumenti alternativi alla liquidazione. Un ruolo che si pone a tutela non soltanto degli imprenditori, ma anche dei creditori e dell’interesse generale di preservare il tessuto economico e occupazionale del Paese.