Tutto si può dire meno che le dichiarazioni del capo di gabinetto del segretario generale della Nato, Stian Jensen, siano parole dal sen fuggite. In quegli ambienti non si parla a caso. Semmai possono essere state una sortita per sondare gli umori, un sasso nello stagno per vedere le reazioni. Ecco perché la successiva smentita dell’uomo ombra di Stoltenberg lascia il tempo che trova. Jensen aveva congetturato su un possibile epilogo della guerra: l’Ucraina potrebbe cedere territori a Mosca (quelli non riconquistati) e contemporaneamente entrare nell’Alleanza Atlantica per garantirsi un futuro sicuro. Un compromesso di buonsenso che nascerebbe dalla fotografia dagli attuali rapporti di forza.
La controffensiva di Kiev, infatti, procede con tempi estremamente lenti. Questa presa d’atto è alla base della prospettiva razionale espressa da Jensen, la stessa che questo Giornale aveva avanzato quasi un anno fa (il 7 ottobre) non come una soluzione, ma come sbocco naturale dell’evoluzione di un conflitto che rischia di non avere né vinti, né vincitori. L’ipotesi, com’era ovvio, ha suscitato la reazione risentita del governo ucraino, che ha definito lo schema «inaccettabile». La vicepremier Iryna Vereshchuk si è addirittura lasciata andare ad una previsione poco rassicurante: a quasi un anno e mezzo dall’invasione russa chiede ancora di prepararsi «ad una guerra lunga e difficile».
Il problema è proprio questo: i tempi del conflitto. Kiev non ha davanti a sé tutti i mesi o anni che vuole per riconquistare il Donbass e magari pure la Crimea. La questione non investe tanto i governi, ma le opinioni pubbliche occidentali. E qui bisogna essere estremamente franchi: chi scrive è stato il più convinto sostenitore della causa ucraina, della difesa dell’indipendenza del Paese e del suo governo democraticamente eletto. Grazie al sostegno dell’Occidente, che ha stanziato notevoli risorse in armi e aiuti e ha subìto senza fiatare le pesanti conseguenze economiche della guerra, Kiev è riuscita nell’impresa di resistere e addirittura di contrattaccare: senza l’intervento dei Paesi Nato e, va detto, senza l’eroismo degli ucraini, ora non avremmo più né l’Ucraina, né Zelensky. Solo che per l’Occidente un conto è impegnarsi per l’indipendenza di Kiev, un altro per permettere a Zelensky di riprendersi tutto il Donbass e la Crimea, specie se l’operazione richiedesse altri mesi di guerra e un’ulteriore montagna di miliardi di dollari.
Questo sforzo sarebbe sempre meno sopportato non tanto dai governi ma dalle opinioni pubbliche occidentali. E visto che parliamo di democrazie che prima o poi torneranno a votare, l’argomento potrebbe condizionare non poco le elezioni di ciascun Paese. Ad esempio, fra poco più di un anno si svolgeranno le presidenziali Usa, e il competitor di Biden, Trump o chi per lui, userà di certo la guerra come tema di campagna elettorale contro l’attuale presidente.
Ecco perché il buonsenso suggerisce di immaginare subordinate rispetto al sogno, legittimo ma remoto, della riconquista di tutti i territori invasi dai russi. I primi che dovrebbero fare questo bagno di realismo sono Zelensky e i suoi: il tempo non lavora per loro.
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