
Nei tribunali britannici è conosciuto come «the italian torpedo», il siluro italiano: un'arma considerata dagli avvocati d'Oltremanica tra le più temibili in qualsiasi processo civile. Serve per prolungare tendenzialmente all'infinito le cause con ricadute o controparti internazionali. Ed è basata su uno stratagemma molto semplice: basta trovare l'appiglio formale per aprire un processo in Italia collegato o addirittura preliminare alla causa principale. Se ci si muove con un po' di abilità i magistrati inglesi dovranno passare la mano e aspettare la sentenza in arrivo dal Sud. Fatto questo, il problema è risolto: ci penseranno i tribunali della Penisola, con la loro proverbiale lentezza, a rimandare tutto quanto alle calende greche. Il tema preoccupa il mondo degli affari londinese, ma è una sanzione per l'Italia che, evidentemente, tra le tante eccellenze esportate ne ha una di cui non c'è da essere particolarmente fieri: la giustizia civile.
Il termine «italian torpedo» fu coniato nel 1997 da un brillante avvocato milanese, Mario Franzosi, specializzato in brevetti e diritto della proprietà industriale (oggi ha 91 anni e lavora ancora a tempo pieno) in un articolo pubblicato su una rivista di studi giuridici, la «European Intellectual Property Review». L'espressione coglieva una tendenza che era già avviata negli anni Novanta e da allora la pratica si è diffusa in tutto il Continente, conosciuta e utilizzata da generazioni di avvocati. Tanto conosciuta e utilizzata da suscitare a suo tempo la reazione dell'Unione Europea che, con un paio di provvedimenti tra il 2012 e il 2015, ha cercato di limitare, con successo, la possibilità di ingorghi processuali transfrontalieri, impedendo ai tribunali dei Paesi lumaca di fare troppi danni (tra i reprobi non c'è solo l'Italia, anche se il nostro resta il caso più clamoroso). Problema risolto, allora? Per la giustizia dei Paesi Ue sì, visto che i loro magistrati non sono più costretti ad aspettare i tempi biblici della giustizia civile tricolore.
Per Londra, però, c'è un problema: nel frattempo la Gran Bretagna è uscita dall'Unione e non applica più le norme anti-ritardo previste dal diritto Ue. Il risultato, come scrive il Financial Times di ieri, che dedica al tema tutta la terza pagina, è il «ritorno del siluro italiano», che ha ricominciato a imperversare nelle aule della giustizia britannica. Il quotidiano intervista il già citato avvocato Franzosi e passa in rassegna alcune vicende in cui il «siluro» è entrato in azione. Nella maggior parte dei casi si tratta di processi aperti dai Comuni italiani contro le banche internazionali che avevano venduto agli enti pubblici della Penisola complicati investimenti in prodotti derivati, saltati per aria con la crisi finanziaria del 2008. I giudici inglesi avrebbero raggiunto una decisione (spesso, tra l'altro, sfavorevole agli acquirenti), ma non possono compiere l'ultimo passo, o applicare la decisione presa, perché in qualche Corte della Penisola i procedimenti paralleli sono in corso e non si sa ancora come e quando finiranno.
Unione Europea e Gran Bretagna firmeranno nel luglio di quest'anno la «Convenzione dell'Aja sul mutuo riconoscimento delle sentenze giudiziarie», ma il testo dell'accordo, secondo alcuni degli avvocati citati nell'articolo, non è formulato in maniera tale da risolvere il problema. Il segreto, dicono i giuristi, sarà il momento di avvio del processo: se chi vuole perdere tempo avrà l'accortezza di iniziare la causa in Italia sarà comunque sicuro di raggiungere l'obiettivo.
Anche questo, volendo, è un primato in cui la Penisola si mostra costante: negli anni Novanta la lentezza della giustizia civile era un problema. Per gli italiani, prima di tutto, ma non solo.
Di anni ne sono passati poco meno di 40, ma le cose non sono cambiate. Qualche avvocato potrà esserne contento, gli interessati (cioè noi) hanno meno ragioni per essere soddisfatti: quanti investimenti internazionali abbiamo perso per colpa del «siluro italiano»?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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