
C'è un paradosso nelle proteste che, in queste ore, stanno bloccando l'Italia. È difficile comprendere come costringere i pendolari a rimanere fermi per ore in tangenziale o in stazione, lasciare i bambini fuori dai portoni delle scuole o paralizzare i centri urbani possa avere la minima influenza sulle scelte di un governo, quello israeliano, impermeabile perfino alle manifestazioni interne e ancor meno sensibile alle prese di posizione della politica estera italiana.
Ammettiamo tuttavia che, nonostante blocchi stradali e ferroviari siano vietati dalla legge, l'obiettivo di questa mobilitazione popolare sia quello di fare pressione su Palazzo Chigi perché adotti una linea più dura nei confronti dello Stato ebraico. Anche in questo caso, l'efficacia di una simile svolta appare dubbia. Israele e Italia intrattengono rapporti commerciali per circa cinque miliardi di euro l'anno, con un saldo dell'export favorevole al nostro Paese. Se l'Italia decidesse di seguire la linea delle piazze e introdurre sanzioni, non si danneggerebbe soltanto Tel Aviv, ma anche interi settori produttivi italiani: in altri termini, alcuni degli stessi manifestanti rischierebbero di perdere il lavoro come conseguenza diretta dell'accoglimento delle proprie rivendicazioni. Un paradosso evidente.
Ma non è il peggiore.
L'ipocrisia più macroscopica riguarda infatti il settore della difesa. L'Italia è tra i principali produttori europei di armamenti. Il comparto occupa direttamente circa 52mila persone dati di due anni fa, oggi stimati in crescita , oltre a decine di migliaia di lavoratori nell'indotto. Si tratta dello 0,8-1% della forza lavoro manifatturiera del Paese. Circa il 70% della produzione viene esportato all'estero, in larga parte verso Paesi del Medio Oriente, e in particolare verso Stati arabi, non verso Israele, da cui, semmai, l'Italia acquista tecnologia militare.
Proprio su questo terreno si innesta la contraddizione. Una delle forme di protesta del movimento «Blocchiamo tutto» è stata la chiusura di porti e il boicottaggio delle navi sospettate di trasportare armamenti prodotti in Italia e venduti all'estero. A guidare l'indignazione non sono soltanto associazioni pacifiste, ma spesso la Cgil e, in particolare, la sua componente dei metalmeccanici, la Fiom. Vale a dire il sindacato che rappresenta la maggioranza della forza lavoro del settore stesso.
Il risultato è un unicum nella storia del sindacalismo europeo: un'organizzazione che, invece di difendere gli interessi occupazionali dei propri iscritti, si impegna per screditare e, di fatto, danneggiare un comparto industriale ad altissima densità di lavoro, ricerca e sviluppo. È un rovesciamento dei ruoli. Il sindacato, nato per tutelare gli operai, finisce per invocare scelte che, se tradotte in atti politici, potrebbero privare quegli stessi lavoratori del loro posto.
Essere pacifisti senza condizioni è, naturalmente, un diritto legittimo. Chiunque può sostenere che l'Italia non dovrebbe produrre armi. È però necessario riconoscere che un eventuale azzeramento della nostra produzione non comporterebbe alcun progresso verso la pace: semplicemente favorirebbe i produttori di altri Paesi, che vedrebbero aumentare le proprie quote di mercato. Ciò che risulta difficilmente sostenibile, se non con una dose massiccia di ipocrisia, è che la stessa linea venga propugnata da coloro che hanno il compito statutario di proteggere l'occupazione. Perché, qualora prevalesse l'idea di un bando totale dell'export militare, i primi a pagarne le conseguenze sarebbero proprio i lavoratori chiamati in piazza a manifestare contro il proprio stesso lavoro.
Non è la sola incongruenza. Qualche giorno fa, su sollecitazione di un gruppo di accademici, l'azienda Leonardo la più importante realtà italiana per ricerca e tecnologia avanzata, non solo in campo militare è stata esclusa dal Festival della Scienza di Genova.
Un Paese che rinuncia a valorizzare il proprio principale motore di innovazione per compiacere un pregiudizio ideologico non fa soltanto un errore culturale, ma si abitua a vivere di ipocrisie.Ed è esattamente ciò che, in queste ore, vediamo accadere nelle piazze.