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In carcere chi insulta su Facebook? Una follia

Il doppiopesismo della giustizia: per la Cassazione le ingiurie sui social network vanno punite con la cella. Ma è una follia

In carcere chi insulta su Facebook? Una follia

Nessuna libertà è più preziosa della libertà di parola, da cui tutte le altre dipendono. E la cosa, sia detto per scacciare l'equivoco di antipatici interessi di categoria, non vale solo per i giornalisti, i quali di parole vivono, e spesso - ahinoi - con le parole uccidono. È tanto preziosa, oltre che delicata, la libertà di parola, che ogni volta che si considera reato una dichiarazione, un giudizio, persino il commento più duro e tranchant , persino un oltraggio, in particolare in questi tempi volgari e chiassosi, fa scattare nell'opinione pubblica la sorpresa, e nell' intellighenzia l'indignazione. È sempre difficile e rischioso separare uno sfogo di rabbia o una critica severissima da un'offesa o da un insulto. Ecco perché appare grave la decisione della Cassazione secondo la quale chi denigra qualcuno su Facebook rischia persino il carcere. Al di là del codice penale, è difficile secondo il senso comune accettare l'idea che qualcuno possa essere condannato alla reclusione, «da sei mesi a tre anni», per un “reato di parola”. Anche al peggiore dei cretini, al peggiore dei misogini, al peggiore dei razzisti, a chiunque calpesti la dignità di una persona con le parole dovrebbe essere evitato il carcere. Lo si condanni pubblicamente, lo si obblighi a rettificare e a scusarsi, lo si contrasti con altre più convincenti parole. Nulla più. Persino Erri De Luca, che non ha insultato ma istigato al sabotaggio, sarà trionfalmente, e giustamente, assolto.

Eppure la Corte di Cassazione, sul caso del conflitto di competenza fra giudice di pace e tribunale, in merito al processo di diffamazione per gli insulti postati su Facebook da un ex marito nei confronti della ex moglie, ha deciso per la competenza del tribunale, essendo ritenuta quella manifestata sui social network una forma di «diffamazione aggravata», con - ecco il punto - la conseguente possibilità di applicazione della detenzione in carcere, e non solo sanzioni pecuniarie. Insomma, insultare o diffamare qualcuno su Facebook in Italia potrà costare la cella.

Intanto negli Usa, nel momento in cui il nuovo account Twitter del presidente Barack Obama viene investito da migliaia di messaggi «disgustosi e offensivi» - una pioggia di insulti razziali - la reazione è di segno completamente opposto. Obama ha reagito con un candido: «È la libertà». E per il suo portavoce Josh Earnest «gli attacchi razziali sono il frutto del fatto che l'America è una società aperta». Per molto, ma molto meno, la nostra Laura Boldrini, che è molto, molto meno del presidente degli Stati Uniti, inviò la polizia postale a casa di chi aveva attentato alla sua dignità di donna postando foto volgari su Facebook. Una reazione che, nel piccolo, dà l'idea non solo della diversa statura politica di Obama e della Boldrini.

Ma anche della distanza sul metro della libertà di parola tra gli Stati Uniti e l'Italia.

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