Economia

Gli affari d'oro di De Benedetti dietro il crac dell'Ambrosiano

L'Ingegnere lucrò sullo scandalo che travolse la banca di Calvi. La sentenza: indebito ingentissimo guadagno

Gli affari d'oro di De Benedetti dietro il crac dell'Ambrosiano

L'espressione più colorita, ma forse più efficace, l'ebbe Orazio Bagnasco, destinato a prendere il posto di Carlo De Benedetti nel vertice del Banco Ambrosiano, raccontando ai giudici le confidenze di Francesco Micheli, finanziere di fiducia dell'Ingegnere: «Proprio siffatte informazioni avevano consentito al De Benedetti di iugulare il Calvi al momento di concordare le modalità di uscita dal Banco». Iugulare: un verbo che nel dizionario non c'è. Ma che racconta bene l'approccio che la sentenza del 16 aprile 1992 del tribunale di Milano attribuisce a Carlo De Benedetti, ex editore di Repubblica e oggi di Domani. E che forse racconta bene anche l'animo di un uomo che davanti a un avversario in pericolo di vita sceglie di infierire su di lui: come l'Ingegnere ha fatto nei giorni scorsi con Silvio Berlusconi.

La sentenza che riporta la testimonianza di Bagnasco è l'atto più illuminante e riassuntivo della carriera giudiziaria di De Benedetti. È la sentenza di primo grado per lo scandalo del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, il più fosco tra gli scandali bancari italiani. De Benedetti sedeva sul banco degli imputati insieme a Licio Gelli e al resto della P2 (Calvi era già stato impiccato a un ponte di Londra), e il tribunale lo condannò a sei anni e quattro mesi concorso in bancarotta, per «l'indebito ingentissimo guadagno lucrato» ai danni dell'Ambrosiano. Il seguito della vicenda è noto: condanna ridotta in appello, e poi annullata dalla Cassazione in base a un curioso ragionamento, secondo cui essendo stato indagato prima per estorsione e poi per bancarotta, De Benedetti non poteva venire condannato per nessuno dei due reati. Poco conta che imputati di filoni laterali, come i disturbatori di assemblee, venissero poi condannati per entrambe le accuse. E vano sarebbe ora chiedersi perché la Procura di Milano, dopo l'annullamento della condanna, non incriminò nuovamente l'Ingegnere: alla prescrizione mancavano ancora otto anni. Anche quella volta, De Benedetti seppe difendersi bene.

Ma i fatti, quelli rimangono, mai messi in discussione né in appello né in Cassazione. Li raccontano le 270 pagine dedicate a De Benedetti delle motivazioni della sentenza di primo grado, scritte dal giudice Pietro Gamacchio. Dentro, ci sono prologo ed epilogo dei tre mesi cruciali della vicenda: tra il 16 novembre 1981, quando la Cir (la holding dell'Ingegnere) compra un milione di azioni del Banco e De Benedetti ne diventa vicepresidente, e la fine del gennaio successivo, quando se ne va con una «liquidazione dorata» (testuale nella sentenza). Gli vengono ricomprate tutte le azioni, anche quelle che non ha mai pagato, insieme al prezzo d'acquisto gli vengono versati gli interessi, e la banca si impegna a vendere al suo posto 32 miliardi di azioni di una finanziaria. Un salasso, per i conti dell'Ambrosiano prossimo al collasso.

Dietro, per i giudici, c'è una storia semplice: De Benedetti entra nell'Ambrosiano sapendo benissimo degli affari sporchi della banca, e punta ad approfittarne per cacciare Calvi e prendere il suo posto. Dirà nella sua arringa Lodovico Isolabella, difensore di un imputato: «Quando mettono in prigione Calvi, De Benedetti pensa che sia il momento giusto per dire: ecco, qui faccio l'affare della vita mia». Ma quando Calvi contrattacca e gli chiude la strada, De Benedetti pretende soldi in cambio del suo silenzio. In cambio dei segreti sui rapporti con lo Ior del Vaticano che non ha reso noti né al consiglio d'amministrazione né alla Banca d'Italia.

E c'è un altro aspetto della sentenza che illumina ancora di più il modus operandi che ha fatto grande De Benedetti: il rapporto d'acciaio con il potere politico, la contiguità con lo Stato. Ad aprirgli la strada verso l'Ambrosiano è Bruno Visentini, che prima di diventare presidente della Olivetti è stato ministro della Finanze. Quando va in Vaticano a parlare dello Ior col cardinal Silvestrini, ci va insieme al ministro dell'Interno, Virginio Rognoni.

E quando Calvi gli fa arrivare una letteraccia anonima, lui invece che al commissariato di zona la porta al Quirinale, a Pertini. A uno così, come potrebbero andar male gli affari?

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