Adesso prevedo il corteo. Le condoglianze. Il cordoglio. La veglia e il ricordo sofferto. Lo hanno insultato per decenni, lo hanno ricoperto di malignità e di ingiurie, lo hanno evitato come fosse un appestato. Oggi fingono pianto e commozione. Aldo Biscardi si prende l'ultimo applauso dagli amici di un tempo e dai codardi contemporanei. Se ne va lui ed è arrivata la moviola in campo, come l'ultima sigaretta del condannato. Un regalo atteso da una vita, prima di salutare il meraviglioso pubblico. Siamo stati tutti Aldo Biscardi, anche quelli che lo hanno dileggiato, dico dei critici televisivi superiori a tutto e a tutti, inferiori a se stessi. Siamo stati Aldo Biscardi per un quarto d'ora al giorno, discutendo di un calcio di rigore, di un fallo laterale, di una parata all'ultimo secondo. Bar, uffici, caserme, redazioni, trasformate in aule di tribunale per un processo, un «prociesso», quello del Lunedì, quello di Biscardi. Cronista d'astuzia, Biscardi non ha mai vantato o esibito cultura o erudizione, ha badato sempre al sodo, da cronista aveva l'orecchio migliore di chiunque altro. Previa mancia, si faceva assegnare, dal portiere dell'albergo, la stanza vicina a quella dell'allenatore della squadra più importante, alla vigilia della partita calda, fosse pure la Coppa del mondo. Così fece con Feola, gestore del Brasile mondiale del '58 in Svezia. Don Vicente era un brasileiro di origini cilentine, i genitori erano salernitani di Castellabate e per Aldo di Larino, area di Campobasso, fu come avere un socio di redazione, un inviato gratuito a disposizione: gli bastava appoggiare l'orecchio al muro e poteva ascoltare qualunque elucubrazione del gigantesco e «gordo» Feola, in mezzo campano e mezzo portoghese. Nacquero così gli «sgub» di Aldo, giornalista di Paese Sera, rosso di capello e di idee politiche. Ma, per astuzia, seppe avvicinare l'orecchio anche al muro di Berlusconi, dei democristiani, dei missini, dei comunisti, della qualunque potesse alzare il livello di attenzione e di ascolti e di share. «Parlate in tre o quattro alla volta, altrimenti non si capisce nulla», era questo uno dei modi suoi di mischiare le carte del mazzo e di vincere la partita. Dalla carta stampata alla Rai, vicedirettore e numero 1 dello sport di chiacchiera, sbracato per alcuni ma oggetto del desiderio per molti. Sfilarono davanti a lui i migliori di sempre, da Carmelo Bene a Vittorio Sgarbi, da Gianni Brera a Vanzina e Squitieri, Andreotti e Arpino, giornalisti di ogni dove, direttori e semplici reporter di marciapiede, il processo è stato il brodo primordiale di Porta a Porta ma più verace, non fintamente salottiero come Vespa cerca e riesce, però caciarone e provocatorio, con qualche bella femmina a fianco di Aldo, il quale, scaramantico ai massimi, seguiva un rito prima di ogni puntata che qui non posso svelare per rispetto. Sapeva di football come questo veniva studiato e raccontato al tempo, l'enfasi stava nella sostanza e non nell'affabulazione, serviva la polpa, cioè le notizie che «fioccavano come nespole» mentre la squadra «si infilava negli incunaboli della difesa» e, ci fu un tempo, in cui si arrivò alla fase ieratica, addirittura con un appello: «A nome di tutta l'umanità che venga magari catturato anche durante il Processo quell'assassino di Bid Labben!!». Ho storpiato apposta, perché Aldo giocava con se stesso, con le parole sgrammaticate che diventano, si direbbe oggi, virali. Accettò anche, in cambio di denaro ovviamente, una autoparodia per lo spot della De Agostini: il rettore magnifico gli consegnava la laurea complimentandosi per la conoscenza della lingua inglese migliore di quella italiana e Aldo ringraziava con un «Denghiù». Nel '93 provocò l'ira di Berlusconi che volle intervenire in diretta, al processo su Rai 3, a proposito della legge Mammì e di quello che, in trasmissione, veniva commentato. Berlusconi con tono di voce alterato definì il Processo «diseducativo e mistificatore» e Biscardi «nipotino di Stalin», l'invasione del numero 1 del Milan provocò la consueta reazione della sinistra ma fu Enrico Mentana, al tempo in Fininvest, a supportare la tesi del presidente. Si arrivò, in seguito, al compromesso storico, tra i due nacque un'amicizia forte, Aldo acchiappò l'umore del presidente milanista che rispondeva a chiamata, intervenendo puntualmente al telefono durante le puntate più concitate e regalò la bomba di Kakà «rossonero a vita».
Era questo il vero «sgub» di Biscardi, un croupier che ti invitava al gioco ma faceva vincere sempre il banco. Vennero dieci, cento mille processi calcistici, copie fasulle o tentativi riusciti, dalla più piccola delle emittenti locali alle grandi tivvù satellitari, processi travestiti e spacciati come dibattiti profondi e seri, a differenza del casino biscardiano ma, in verità, spettacoli bluff di teste ingessate. Calciopoli fu fatale a Biscardi.
I signori, duri e puri, che gestivano La7 lo misero alla porta in minuti due, Aldo mise in valigia il suo giocattolo portandolo in altre reti, cosiddette minori. Se ne è andato in silenzio. Oggi è lunedì, il giorno di Aldo.
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