Ha tollerato i carri armati a Budapest. Poi a Praga. Il potere assoluto di Togliatti nel Pci. Frotte di compagni «miglioristi» che si facevano strada passandogli avanti, calpestando la sua orgogliosa rivendicazione di erede prescelto da Giorgio Amendola. Nobiltà politica in nome della quale ha saputo sopportare anni e anni di oblio, ininfluenza, marginalità. Ha ingoiato rospi su rospi, rifugiandosi in un personale eremo fatto di cervellotiche parabole teoriche su una politica che sembrava andare sempre altrove, rispetto alle sue previsioni.
Però c'è un prima e un dopo, nella dilatata carriera politica di Giorgio Napolitano. E, nel dopo, unico presidente della storia a vantare doppio mandato, c'è tutto il contrario del prima. Compare la rivincita e la rivalsa, il crudo sapore di un'auto-investitura che soltanto il potere può concedere e l'autostima non manca di consolidare. Così King George è tornato, facendoci come sempre scoprire che in realtà non se n'è mai andato. Nel debutto in Aula di una legge elettorale a lungo perseguita - assieme a un lustro di trame politiche con un unico tratto comune: considerare superflua la volontà del popolo - Napolitano ha diramato ieri una nota che vorrebbe somigliare a un ukase del Cremlino. Quel che penso del Rosatellum-bis forse ve lo dirò poi, quando arriverà in Senato, proclama in sostanza il senatore a vita. Ma un punto proprio non va, e sarebbe meglio che la Camera lo depenni ora, senza indugiare. Questo punto è l'indicazione del capo politico: un «grande equivoco» che va «definitivamente eliminato» in quanto si tratta di «qualcosa che è incompatibile con i nostri equilibri costituzionali». E dio-non-voglia possa toccare a un Cav liberato dalla Corte di Strasburgo, nuovamente in sella e magari padrone del tavolo di gioco (ma questo non lo scrive). Napolitano perciò «confida» che i colleghi deputati possano procedere subito al gioco sporco, prima che l'incombenza tocchi all'Aula onorata della sua presenza. Un «equivoco» che non si produce neppure nel sistema francese, spiega l'ex capo dello Stato, e che potrebbe affacciarsi qualora il popolo ritenesse di eleggere, assieme alla coalizione e ai parlamentari di una forza politica, anche il suo «Capo» destinandolo a Palazzo Chigi. Arzigogolo che in filo di diritto costituzionale non farebbe una piega, se non fosse che era già contenuto nell'Italicum licenziato dallo stesso Napolitano e che negli anni del Mattarellum, invece, il nome del «capo politico» era bello e stampato nei loghi di partito: Prodi presidente, Berlusconi presidente, Mastella (persino) presidente... Dov'era Napolitano, in quell'epoca incostituzionale? Magari al Viminale, ministro dell'Interno. O poi all'Europarlamento. Fino al 2005, quando fu nominato senatore a vita, sottraendosi finalmente a questa volgarità assoluta dell'investitura popolare. La seccatura della ricerca del consenso. Ecco perché in fondo si può rintracciare almeno una coerenza, nel comunicato emesso ieri dal presidente emerito.
Una coerenza che somiglia tanto all'ipocrisia di quando l'apparenza era salvata da un logo piuttosto che da un'evoluzione della cosiddetta «costituzione materiale» - che si può condividere oppure no - ma che se non altro (magra consolazione, se vogliamo) passa per un voto parlamentare. È un po' come la parabola del nostro King, destinato alla panchina quando in campo scendevano certi forti giocatori scelti tramite elezioni, e assurto al trono quando la partita è finita. Nelle mani d'Eurolandia.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.