Le ambiguità pilatesche dei dem a Bruxelles

Il Partito Democratico e i suoi esponenti divisi sulla nomina di Fitto

Le ambiguità pilatesche dei dem a Bruxelles
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Seduto su uno dei divani del Transatlantico di Montecitorio, Vincenzo Amendola, uno dei pochi del Pd che parla di politica estera con cognizione, guarda ad un presente pieno di incognite. «Cosa succederà in America? - si risponde sconsolato - finirà che vincerà Trump con la legge elettorale che hanno. La Harris è due punti su nei sondaggi a livello nazionale, ma negli Stati chiave è sotto. E purtroppo con Trump cambierebbero molte cose». Ma prima del 5 novembre, data delle elezioni americane, arriverà il fatidico giorno in cui Ursula von der Leyen dovrà presentare la sua squadra di governo e lì c'è il problema di Raffaele Fitto a cui la presidente della Commissione vorrebbe concedere una vice-presidenza esecutiva e due deleghe importanti come l'Economia e il Pnrr ma nel Parlamento di Strasburgo socialisti, liberali e verdi si oppongono. Ora il Pd è il partito che ha la rappresentanza più numerosa nel Pse, se guardasse agli interessi nazionali dovrebbe esporsi e appoggiare il candidato italiano, ma si muove con una certa ambiguità: non si oppone a Fitto, ma non dà battaglia per evitare che i socialisti europei dicano «no».

Eppure dentro il partito qualche voce si è levata. Il più votato nelle liste del Pd nelle ultime europee, l'ex sindaco di Bari De Caro, si è lasciato andare ad un vero e proprio endorsement. Nessun veto neppure da Bonaccini solo che manca una vera e propria iniziativa che rivendichi quel ruolo per l'Italia. Sull'argomento il Pd è timido o, appunto, ambiguo. «Io la prenderei - confida Amendola - ma sono io dovrebbe muoversi il partito, la Schlein. Comunque, conoscendo i meccanismi europei alla fine una soluzione si troverà. Nel Pse più che per Fitto sono arrabbiati perché il governo lussemburghese ha candidato un esponente del Ppe al posto di quello che è stato il loro spitzenkandidat, Schmit».

Quindi, meglio stare alla finestra, evitare di dare un argomento ai grillini e magari poi se è proprio necessario votarlo in ultima istanza ma senza accalorarsi: in breve assumere la posizione degli spettatori passivi e alla fine vedere se Fitto con le sue gambe ce la farà o meno. «Anche perché - rammenta Gianni Cuperlo - Fratelli d'Italia votò contro la nomina di Gentiloni che che ne dicano i giornali». Mentre Nico Stumpo si rifugia nell'aritmetica: «Intanto seppure lo votassimo noi non passerebbe lo stesso».

Insomma, siamo a Pilato a conferma che nel Pd le logiche di schieramento vengono prima dell'interesse nazionale. Purtroppo, a parte rari casi, è un tratto comune della politica italiana. Da noi non si fa «sistema», semmai - specie a sinistra - si gioca di sponda con gli alleati all'estero per far fuori il «delfino» italiano al costo di rimetterci come Paese. È un limite, un handicap che soffriamo da sempre. Anche se, specie in questo caso, sarebbe interesse pure dell'opposizione avere un italiano in un ruolo strategico a Bruxelles. In fondo il mandato europeo di Fitto proseguirebbe due anni oltre la scadenza dell'attuale legislatura e quindi potrebbe aiutare l'esecutivo che governerà la prossima e non è detto che non possa essere un governo di centro-sinistra.

In quest'ottica se l'operazione Fitto non andasse in porto sarebbe un vero peccato per tutti. Con il «pragmatismo» che contraddistingue i popolari la von der Leyen, nel patto personale con la Meloni, infatti, ha ritagliato un vestito su misura per il commissario italiano: vicepresidente esecutivo e le deleghe per l'economia e il Pnrr. Deleghe fondamentali per un paese come il nostro che deve vedersela con il nuovo patto di stabilità e con la gestione dei fondi avuti per il Covid.

Senza contare che attirando la Meloni sempre più nell'orbita europea la von der Leyen -sempre in ossequio al pragmatismo del Ppe - spaccherebbe la destra europea. Strategie incomprensibili per una sinistra dove da sempre le pseudo-ideologie sono sinonimo di miopia.

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