Le amnesie di De Benedetti: non ricorda la sua condanna

L'Ingegnere testimone nella causa che ha intentato contro Tronchetti Provera scivola sulla sentenza Olivetti: ebbe 3 mesi per falso in bilancio, ma dice di non conoscerla

Le amnesie di De Benedetti: non ricorda la sua condanna

Ingegner De Benedetti, se la ricorda questa sentenza?

«No».

Sono le tre di ieri pomeriggio, e nell'aula del tribunale di Milano si consuma un piccolo psicodramma. Perché Carlo De Benedetti, arrivato in aula come vittima, e deciso a dimostrare come e perché Marco Tronchetti Provera lo abbia ingiuriato e diffamato, si ritrova su una sedia davanti al giudice, in veste di testimone, dopo avere giurato di dire la verità. Tronchetti è imputato di diffamazione ai suoi danni. Ma sotto le domande del difensore di Tronchetti, De Benedetti si arrabbia, sbotta, vacilla. E infine si rifugia nel «non ricordo». E non è una rimozione da poco. Perché tra le falsità dette dal presidente di Pirelli ci sarebbe secondo l'Ingegnere quella secondo cui i bilanci di Olivetti erano «discussi». «Una frase senza senso e ingiuriosa», ha appena spiegato De Benedetti al giudice, «i bilanci dell'Olivetti sono sempre stati approvati senza obiezione». Ma poco dopo l'avvocato di Tronchetti gli squaderna una sentenza che dice il contrario: la sua condanna in via definitiva per falso in bilancio.

«Ha memoria di una sentenza pronunciata dal gup di Ivrea in data 14 ottobre 1999 e passata in giudicato il 22 novembre 1999?»

«No. Non mi ricordo, evidentemente era irrilevante perché è finita nel nulla».

«No, è finita con la sua condanna a tre mesi di reclusione per falso in bilancio, poi con la conversione in pena pecuniaria per circa 50 milioni. Le imputazioni si riferivano a tre bilanci Olivetti dal 1994 al 1996. Lei non ricorda di avere risarcito l'Olivetti per questi falsi?»

«Non ricordo nulla di tutto questo, neanche di avere risarcito l'Olivetti».

Insomma, un vero e proprio black out, singolare in un lucido ottuagenario. E non è il solo passaggio su cui il controesame trova De Benedetti in imbarazzo. È una udienza interessante, uno spaccato rapido ma significativo sui rapporti interni al grande capitale italiano, tra vecchi rancori personali e contrasti d'affari: veleni che attraversano quarant'anni di storia patria, dalla Fiat degli anni Settanta al crac del Banco Ambrosiano a Mani Pulite alla privatizzazione di Telecom, e con la sensazione che sull'odio tra i due incomba in qualche modo anche la vicenda dei dossier illegali di Telecom che ronzavano intorno anche al figlio di De Benedetti. I verbali del processo di ieri grondano colpi di clava. L'Ingegnere accusa Tronchetti di averlo diffamato con una serie di comunicati nel 2013, dandogli più o meno del bancarottiere, del tangentaro e del falsificatore di bilanci. Tronchetti ribatte che ha cominciato prima De Benedetti dandogli dell'avido, dell'incapace e del rapinatore. Ieri, come era inevitabile, l'avvocato di Tronchetti fa le pulci al passato dell'Ingegnere. E salta fuori che le cattiverie di Tronchetti qualche base di fatto purtroppo l'avevano: come quando definiva l'Ingegnere «cittadino svizzero», «che di per sé - dice l'Ingegnere - non è un insulto ma era stato a utilizzato dai giornali di Berlusconi con evidenti scopi denigratori» per fare credere che preferisse pagare le tasse a Berna che a Roma: e ieri De Benedetti riconosce di avere avuto effettivamente per anni la doppia cittadinanza, e rivela che dal 5 gennaio scorso si è trasferito anche fiscalmente nella Confederazione; o come quando lo definiva «coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano», e ieri gli ricordano che venne condannato a sei anni in primo e in secondo grado, salvo essere assolto in Cassazione. Dell'arresto per le tangenti alle Poste De Benedetti chiede di non parlare, perché saggiamente su questo punto non ha querelato Tronchetti. Ma poiché la faccenda fa parte del capo d'accusa, il giudice ammette la domanda. «Venni arrestato per quattro ore», deve dire De Benedetti. Poi, ammette, se la cavò con la prescrizione.

Più di tutto, a leggere la sua querela, a De Benedetti è risultato indigesto l'episodio più remoto: la fine nel 1976 della sua carriera in Fiat, da cui secondo Tronchetti venne «cacciato» e da cui lui giura di essersene andato spontaneamente. E qui l'avvocato dell'imputato gli tira fuori i giornali dell'epoca, dove a parlare di un suo allontanamento era addirittura Repubblica .

Perché non querelò? «Mettersi contro l'ufficio stampa Fiat era impossibile. Fecero girare anche la voce che ero alla testa di una cordata ebraica per scalare la Fiat. Ma chi conosce gli ebrei sa che chiedono e non danno».

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