
Né vincitori, né vinti. È il risultato, desolante e amaro, del cessate il fuoco accettato da Hamas e dal governo di Benjamin Netanyahu dopo due anni di guerra, oltre 65mila morti palestinesi e più di 1700 caduti israeliani fra vittime del 7 ottobre, soldati uccisi in combattimento e ostaggi deceduti in prigionia. A ben guardare nessuno dei due contendenti ha raggiunto i risultati sperati.
Il premier israeliano non ha conseguito la completa distruzione di Hamas e l'eliminazione della sua dirigenza promessi dopo il 7 ottobre. Hamas, convinto alla vigilia delle stragi di affrontare una rappresaglia dura, ma limitata si ritrova, invece, con una forza militare in larga parte distrutta.
E in balia di un nemico che consegnati gli ostaggi potrà, in caso di fallimento del piano Trump, colpirlo senza pietà. Per non parlare del limitato consenso di cui gode ormai tra i palestinesi della Striscia. Ma la vittoria di Netanyahu è altrettanto apparente. Sopravvissuto alle responsabilità per il 7 ottobre, alle accuse della Corte Penale Internazionale e ai processi per corruzione il premier il premier rischia di venir sepolto dal voto degli elettori. Anche perché i risultati della sua leadership sono un paese delegittimato internazionalmente e un esercito provato dal peso di una guerra combattuta senza alcun rispetto per i diritti umani. Sullo scenario regionale la situazione non è migliore.
Per la prima volta Israele rischia di fronteggiare il potente esercito di una Turchia campione dell'islamismo sunnita. Già schierato alla frontiera di una Siria trasformata in protettorato di Ankara, l'esercito turco si prepara a posar gli scarponi anche a Gaza. Una Gaza dove Ankara punta a giocare un ruolo sia nell'autorità provvisoria chiamata a governarla, sia tra le fila della forza di pace. Ruoli offertigli da Trump in cambio dell'impegno del presidente Recep Tayyp Erdogan a premere su Hamas per strappargli il sì alla consegna degli ostaggi.
Ma Israele deve vedersela anche con un Qatar pronto a insidiargli il ruolo di alleato di riferimento della Casa Bianca. Un ruolo messo a repentaglio dal fallimentare attacco del 9 settembre quando Netanyahu ordinò, per la rabbia di Trump, il bombardamento dell'edificio di Doha in cui era riunita la dirigenza di Hamas. Ma sia la Turchia sia il Qatar, legate dal comune appoggio alla Fratellanza Musulmana, potrebbero anche lavorare sotto traccia e garantire ad Hamas il mantenimento di un ruolo politico dentro la Striscia.
Un ruolo di fatto già emerso a Sharm El Sheik dove americani e israeliani hanno trattato con una rappresentanza guidata da Khalil Al Hayya, il membro dell'ufficio politico di Hamas referente diretto, in passato dell'Iran e di Yahya Sinwar, il defunto capo di Hamas pianificatore del 7 ottobre. Senza contare che a Gaza sopravvivono e operano Izz al-Din Haddad, nuovo capo dell'organizzazione, e Raed Saad storico comandante della sua ala militare. In tutto questo il completo disarmo di Hamas previsto dal piano Trump è tutt'altro che scontato.
Soprattutto se la sua realizzazione verrà affidata - su questo il precedente del Libano nel 2006 fa scuola - ad una forza di pace composta da militari arabi e sunniti.
Dietro le speranze del cessate il fuoco si nasconde insomma il passo felpato di un Gattopardo che a Gaza - come nella Sicilia risorgimentale di Giuseppe Tommasi di Lampedusa e del principe Salina - minaccia di "cambiar tutto per non cambiar nulla".