Cronache

"Anch'io cinque mesi nelle mani dell'Isis. Dicevano: convertiti o ti tagliamo la gola"

Padre Mourad, confratello di padre Dall'Oglio (ancora rapito): "Per loro ero un nemico"

"Anch'io cinque mesi nelle mani dell'Isis. Dicevano: convertiti o ti tagliamo la gola"

«Viviamo chiusi nel nostro monastero. È tempo di intercessione e preghiera per la salvezza del mondo. Isolati, ma uniti nella comunione». Un tempo che in qualche modo, paradossalmente, ricorda la solitudine vissuta durante la sua prigionia, nelle mani dell'Isis. Padre Jacques Mourad, monaco siro-cattolico, è stato ostaggio dei terroristi jihadisti in Siria per 5 mesi. La preghiera, la celebrazione della messa nella sua cella sbarrata da un portone in ferro, hanno rappresentato la forza per andare avanti. Nonostante le torture e le minacce continue («Convertiti o ti tagliamo la gola»), padre Jacques è riuscito ad uscire dal tunnel della morte. Racconta al Giornale come vive questo tempo di Covid-19 al monastero Mar Musa, a nord di Damasco, dove viveva anche padre Paolo Dall'Oglio, rapito nel 2013 e di cui non si hanno più notizie. «È la prima volta nella storia che il nostro monastero Mar Musa è costretto a chiudere le sue porte. Non era mai successo, nemmeno durante gli anni delle pericolose guerre. Mai abbiamo chiuso i nostri cancelli di fronte alla richiesta della nostra gente. È un tempo su cui riflettere, tutta la Chiesa deve riflettere. Siamo invitati a riscoprire il senso della vita, il valore della famiglia, la nostra vocazione cristiana».

Questo isolamento «forzato» le ricorda la prigionia?

«Non si può fare un confronto del genere; anche se sei chiuso in casa, o in monastero, le ragioni sono completamente diverse. Ora, per proteggersi dal Covid; in carcere è al contrario, una costrizione, non una protezione. A casa sei in un ambiente che per te è famiglia, in prigione sei in un luogo chiuso da una porta di ferro in cui vivi ogni giorno la paura della persecuzione. Hai di fronte a te i tuoi aguzzini che non rappresentano nulla per te; sono degli aggressori, dei violenti. E anche se io li guardavo con gli occhi della fratellanza umana, per loro io ero un nemico impuro e blasfemo».

Cosa hanno rappresentato quei cinque mesi nelle mani dell'Isis?

«Durante la mia prigionia, ogni giorno avevo il desiderio di celebrare la messa e prendere la comunione. Ogni domenica, alle 4 del mattino, dopo la preghiera islamica, celebravo la messa in silenzio, nella mia cella, e ringraziavo sempre il Signore per tutti i momenti di grazia della mia vita. Durante la mia prigionia ho capito veramente come vivono gli eremiti, sempre chiusi nelle loro celle, senza alcun contatto. Ho chiamato quella messa domenicale la Messa della nostalgia».

Che insegnamento trarre dall'esperienza del Covid?

«Forse abbiamo bisogno di scoprire di nuovo il significato dell'Eucaristia, che è la condivisione dell'unità del corpo di Cristo. Se guardiamo il deserto, non è un luogo arido e vuoto, ma un luogo dove si sceglie di vivere la solitudine per scoprire le bellezze interiori. E soffriamo una terribile aridità spirituale che non ci aiuta a vedere il futuro con speranza. Ma dopo il deserto, c'è la vita che rinasce».

E la vita in Siria?

«Anche il governo siriano, come in ogni angolo del mondo, ha adottato le misure di lockdown e di isolamento per contenere il contagio da coronavirus».

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