Ancora a casa 306 detenuti: eppure Bonafede resta ministro

Solo 50 tra boss e criminali scarcerati sono tornati dietro le sbarre. E la responsabilità è del Guardasigilli

Ancora a casa 306 detenuti: eppure Bonafede resta ministro

Boss, criminali di stazza varia, delinquenti e detenuti in attesa di giudizio. Tutti uniti dallo stesso destino, sotto forma di circolare del ministero della Giustizia che ha aperto le porte delle celle mandando a casa 356 detenuti affetti da altre patologie e dunque considerati a rischio contagio dietro le sbarre. E 306 di loro sono ancora a casa, nonostante i decreti fatti per rimediare alla grande fuga. Il pasticcio arriva dopo le rivolte nelle carceri all'alba del Covid che hanno provocato 14 vittime tra i detenuti, ed è ben noto. Così come sono note le clamorose conseguenze. Uomini come il boss dei Casalesi Pasquale Zagaria che finiscono scarcerati, le polemiche che travolgono il ministero di via Arenula, il decreto con cui Bonafede ha tentato di tappare la falla (ma sarebbero tornati dai domiciliari in carcere solo una cinquantina di detenuti, i casi più clamorosi, come Zagaria, appunto, e quelli ritenuti più pericolosi), le dimissioni dei vertici del Dap, il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria che prima vede andarsene il numero uno, il magistrato Francesco Basentini, e poi registra pure il passo indietro, per «motivi familiari», del direttore generale detenuti Giulio Romano, nominato poche settimane prima, mentre pure il capo di Gabinetto di Bonafede, Fulvio Baldi, saluta e se ne va per «ragioni personali» il giorno dopo la pubblicazione di intercettazioni tra il «solito» Luca Palamara e lo stesso collaboratore del Guardasigilli.

Il tutto mentre telecamere e giornalisti accorrono sotto le case dei criminali eccellenti «rimpatriati» dall'improvvida iniziativa della nostra giustizia, finendo per testimoniare il ritorno di molti angoli del Bel Paese sotto il controllo dei padrini a rischio Covid. Mandati a casa da una serie di via libera di dirigenti e funzionari che non avevano voglia di trovarsi poi ad affrontare in proprio la responsabilità di un contagio eccellente. Se il diktat è arrivato dall'alto, insomma, non ha certo trovato ostacoli nella sua applicazione.

Tornando a Roma, mentre boss e criminali ricominciavano grazie alla circolare del Dap a far sentire la propria presenza anche fisica nei territori di competenza in qualche caso per pochi giorni, ma c'è chi è ancora a casa in via Arenula scoppia il terremoto. Le scosse, da settimane, non accennano a finire. Ma l'unico che sembra ignorarle è proprio lui, il titolare del dicastero, il pentastellato Bonafede. Che non si smuove nonostante gli attacchi da ogni lato, e continua a difendere le sue scelte. Anche quella di aver preferito Basentini al pm antimafia Nino Di Matteo, con tanto di corollario di accuse firmate proprio dal magistrato, che non si è fatto pregare nel ricordare che quel posto al Dap gli era stato proposto proprio da Bonafede, che però poi gli aveva fatto sapere, il giorno dopo, di aver cambiato idea optando per Basentini.

Il ministro minimizza, alla Camera difende la sua scelta, ma la sua linea non convince. Due sere fa, Matteo Renzi, ospite di Giletti a Non è l'Arena, tira un siluro al rappresentante dell'esecutivo che pure lui appoggia, ipotizzando che il merito di Basentini per guadagnarsi la promozione a capo del Dap sia stata «l'inchiesta fuffa, assurda, sulla vicenda Tempa rossa», che nel 2016 portò a interrogare mezzo governo guidato dall'ex segretario Pd. Ma da Giletti l'onda d'urto contro il Guardasigilli non si ferma a Renzi. È forte ed è trasversale. Ci va giù durissimo il sindaco di Napoli ed ex pm in Calabria Luigi de Magistris, che dice di sentire in tutta la vicenda «puzza di ndrangheta» e trova dalla sua parte il direttore del Giornale Alessandro Sallusti, che definisce «inquietante» il fatto che si stia «cercando di insabbiare questa vicenda». In fondo, proprio chiamando il programma di Giletti, il 3 maggio scorso, Di Matteo aveva ipotizzato che la reazione preoccupata di alcuni capimafia alla sua paventata nomina a capo del Dap, avrebbe indotto Bonafede a cambiare idea e ad assegnare l'incarico a Basentini.

Così, ora, anche la giornalista del Fatto Quotidiano Sandra Amurri, ospite del programma, chiede a Bonafede di spiegare, per cominciare, quel «gran rifiuto» a Di Matteo: «Ciò che non sappiamo è perché ha cambiato idea, se ha cambiato idea lui, o chi gli ha fatto cambiare idea, perché dentro questa risposta c'è la verità di questa storia molto torbida, che il Paese deve sapere. Il ministro deve dare una spiegazione».

Come dovrebbe darla rispetto a quella circolare, che un magistrato ed ex dirigente del Dap come Sebastiano Ardita boccia senza appello sia intervenendo da Giletti («Non l'avrei mai firmata, non è nella filosofia del ministero») e ribadendo che non poteva certo essere firmata da una semplice funzionaria sia, un mese fa, in un'intervista al Corriere a proposito dello scontro Di Matteo-Bonafede: «Stiamo assistendo alla Caporetto del sistema penitenziario e della prevenzione penale, che ha prodotto come effetto domino le rivolte, con la morte di 14 persone affidate alla cura dello Stato e poi l'uscita dal carcere dei mafiosi».

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