Piaccia o no, il Workshop Ambrosetti del primo week end di settembre, la cui 41esima edizione si è chiusa ieri a Cernobbio, ha scritto anche alcune pagine di storia. Nella politica, nell'economia, e non solo per l'Italia. Ma da qualche anno a questa parte non è più la stessa cosa e, calato il sipario, è forte la tentazione di misurare il valore di questa riunione di statisti, economisti, finanzieri e politici di tutto il mondo. La sensazione è che siamo di fronte a un dibattito sempre più povero soprattutto per il diminuito spessore dei suoi protagonisti.
Da qualche anno, almeno dal 2011, l'Europa e il mondo intero hanno un disperato bisogno di ricette per affrontare una crisi che è partita dai mutui sulle case americane, si è trasformata in recessione globale per poi allargarsi geopoliticamente fino all'emergenza umanitaria di questi giorni. Eppure, l'impressione è che a Cernobbio si siano fatti e disfatti gli «scenari competitivi» (è il titolo storico del Forum) fino a quando questi non sono diventati troppo complessi. E troppo deboli i protagonisti sulla scena. Da allora il contributo è andato scemando.
A Villa d'Este si incontravano, negli anni Novanta, i due Nobel Shimon Peres e Yasser Arafat, quando la questione palestinese sembrava come non mai vicina a una soluzione. A rappresentare idealmente l'impresa italiana di fronte all'intellighenzia internazionale arrivava l'Avvocato Gianni Agnelli, in elicottero già 25 anni fa. Mentre Cesare Romiti e Luciano Lama a Cernobbio riuscivano a dialogare anche durante gli anni di piombo, come riconosciuto dallo scomparso ex segretario della Cgil in una successiva lettera ad Alfredo Ambrosetti. Ci sono passati anche Joseph Ratzinger da cardinale e Giorgio Napolitano da senatore. Potrà allora essere irriverente e di certo non esaustivo, ma che i taccuini di questi giorni abbiano ambito alle dichiarazioni di un gestore di fondi famoso per aver finanziato l'attuale premier italiano come Davide Serra, piuttosto che a quelle di un ex carneade e ministro delle Finanze greco quale Yanis Varoufakis, dà un po' la misura di un diverso livello su cui si svolgono i confronti.
Si dirà che questa è semmai la ricaduta mediatica come è stata trasmessa dai 450 operatori dell'informazione presenti a Villa d'Este (circa il doppio degli invitati di Ambrosetti), mentre «dentro», cioè nel dibattito a porte chiuse tra oratori e ospiti, i temi sono stati altri ed alti. Ma i media sono gli stessi che in tempi passati dal Workshop di Cernobbio estraevano miriadi di spunti, veicolavano proposte politiche, alimentavano dibattiti. Mentre ieri, a leggere i giornali - anche quelli storicamente più legati al Workshop come il Corriere della Sera o il Sole 24 Ore perché strettamente connessi allo stesso network di relazioni -, si faceva fatica a trovare una chiave che non fosse Matteo Renzi. Il quale non ha detto nulla che non avesse già ripetuto tante altre volte, in altri e meno nobili consessi pubblici o privati. E tanto è bastato perché i poteri forti, idealmente qui rappresentati, ne rimanessero folgorati.
La realtà è che, nel pieno della crisi di questa Europa costruita sulla moneta alla fine del secolo scorso ma del tutto impreparata a prevedere ed affrontare i problemi sociali, economici, politici e culturali che abbiamo di fronte, sono state proprio le cattedre europeiste
come questa del Workshop lariano a segnare il passo. I «governi Ambrosetti» - ultimo e conclamato quello Napolitano-Monti del 2011 - nati qui si sono rivelati buoni per gestire un'emergenza. Ma non per guardare più lontano.
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