Negli stessi minuti in cui Matteo Salvini sale al primo piano di Palazzo Chigi per incontrare Mario Draghi, alla Camera la Lega guida la fronda contro il governo sul decreto Ucraina che per due volte slitta a causa della mancanza del numero legale. Così, sul momento c'è chi teme sia in vista un braccio di ferro, anche perché se il primo scivolone poteva essere un incidente, il secondo arriva un'ora dopo, con i gruppi parlamentari che hanno avuto tutto il tempo per richiamare all'ordine gli eventuali deputati ritardatari. Invece, nonostante Salvini assicuri che «la colpa» non è sua, il Carroccio resta il primo partito in quanto ad assenze anche al secondo tentativo. Questo dicono i tabulati della Camera: il 67,67% dei 133 deputati leghisti non è presente in Aula; a seguire Forza Italia (mancano il 50% degli 81 azzurri) e M5s (assenti il 46,75% dei 155 grillini). Anche FdI registra il 56,76% di non presenti al voto (su 37 deputati), ma - come è noto - il partito di Giorgia Meloni non fa parte della maggioranza che sostiene il governo.
La premessa del faccia a faccia tra Draghi e Salvini, insomma, non sembra delle migliori. Invece l'obiettivo dell'ex ministro dell'Interno è quello di giocare su un doppio binario. Quello a favore di telecamere e che fa parte della comunicazione pubblica, con la Lega che continua a mostrarsi scettica sul dl Ucraina, fa mancare il numero legale per due volte e ribadisce per bocca di Salvini di essere contraria sia alle sanzioni («l'embargo di gas e petrolio fa più male all'Italia e all'Ue che alla Russia») che all'invio di ulteriori armi («non penso sia la soluzione giusta, il dialogo non si prepara così»). Il segretario del Carroccio, insomma, continua a dire che «la guerra finirà solo con un negoziato», rimuovendo però - esattamente come fa Giuseppe Conte - il problema principale: al momento non pare che Vladimir Putin sia disposto a sedersi al tavolo e fino ad allora è evidente che o si supporta l'Ucraina anche militarmente oppure la sia abbandona al suo destino. In verità, Salvini è ben consapevole del problema, tanto che se pubblicamente tiene una posizione critica, in privato avrebbe rassicurato Draghi sul fatto che la Lega non si metterà di traverso. Non è un caso che l'ex vicepremier non chieda un nuovo voto del Parlamento dopo quello del primo marzo, anche perché sa bene che eventuali sorprese in questo senso potrebbero portare dirette ad una crisi di governo. Non sarebbe, infatti, un passaggio che Draghi accetterebbe in silenzio.
Ma a Palazzo Chigi non si è parlato solo di Ucraina. Sul tavolo, infatti, c'era anche il ddl Concorrenza (e il delicatissimo nodo dei balneari) che di fatto sta bloccando da giorni anche la delega fiscale. Entrambi i provvedimenti vanno approvati entro il 30 giugno per rispettare il crono-programma del Pnrr e, soprattutto, per il 31 dicembre devono essere varati tutti i decreti attuativi. Se l'accordo su catasto e Irpef è stato trovato, quello che manca per sbloccare lo stallo è l'ok sulle spiagge. Che ieri Salvini avrebbe sostanzialmente assicurato, prima nel faccia a faccia con Draghi e poi nel successivo incontro con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli, che da mesi sta seguendo tutti i dossier legati al Pnrr. D'altra parte, prima la sentenza del Consiglio di Stato sulle gare e poi i sequestri decisi dalla procura di Savona hanno sostanzialmente cambiato il quadro complessivo e pure i balneari auspicano da tempo un'intesa.
Così, dunque, si arriva all'accordo politico e ora saranno gli uffici ad avere il compito di metterlo nero su bianco. Insomma, sì alle gare. Poi, spiega Salvini, «se la scadenza sarà 2024 o 2025 lo vedranno i tecnici» perché «l'importante è che in caso di mancato rinnovo sia previsto un congruo indennizzo».
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