«È la trentesima coltellata a Lidia». Non usa giri di parole l'avvocato della famiglia Macchi, ammazzata nella notte tra il 5 e 6 gennaio 1987. Nell'aula della Corte d'assise d'appello è appena calata come una lama di incredulità, mentre il giudice leggeva la sentenza: una incredulità dai due volti. Uno è quello di Stefano Binda, che da tre anni era in carcere, accusato di essere l'autore di quell'antico delitto, e che era già stato condannato all'ergastolo: e che si vede restituite libertà e innocenza. L'altra è l'incredulità della sorella di Lidia, l'unica della famiglia presente, «perché non pensavamo che il processo d'appello finisse così in fretta»: e che vede allontanarsi e forse svanire la possibilità di dare un perché e un colpevole alla morte di Lidia, bella, sorridente, serena, strappata alla vita a 18 anni.
Sono passati 32 anni da quella notte: e questo tempo infinito ha pesato sulla nuova inchiesta, aperta dopo che un'amica di Lidia ha riconosciuto la grafia di Binda - anche lui della compagnia varesotta di Comunione e Liberazione: ma era lo strano, lo sfigato - nella strana lettera che il giorno del funerale di Lidia arrivò alla famiglia a metà tra preghiera e confessione, «In morte di un'amica». Era una traccia: e avrebbe potuto venire confermata o smentita, se le moderne tecniche investigative avessero potuto venire applicate alla vecchia inchiesta. Ma non si è potuto, perché le prove sono state distrutte su ordine del pm di allora, compresi i lembi del corpo della ragazza: e questo dei depistaggi e delle coperture è il lato oscuro della vicenda. Gemma Gualdi, il sostituto pg che ha condotto il processo, ieri nella requisitoria in cui ha chiesto la conferma dell'ergastolo per Binda è tornata a puntare il dito sul microcosmo cattolico: «Il gruppo di Cl cui appartenevano sia la vittima sia l'imputato ha preferito salvare un barbaro assassino che una vergine accoltellata».
Cos'è cambiato tra il processo che nell'aprile 2018 dichiarò Binda colpevole e questo che ieri finisce con lui attonito che rientra nella gabbia, preparando per l'ultima volta i polsi alle manette delle guardie e mormorando: «Sì, sì, non sono stato io»? C'è un elemento forte, spettacolare: l'irruzione nella storia di un avvocato e professore, Piergiorgio Vittorini, che già durante il primo processo si era fatto avanti dicendo di avere avuto la confidenza di un cliente che diceva di essere lui l'autore della lettera attribuita a Binda. In primo grado, non lo avevano neanche voluto ascoltare: per i giudici non serviva, visto che il segreto professionale impediva a Vittorini di fare il nome dell'autore presunto. I giudici di appello invece lo hanno voluto sentire, e già quella scelta era suonata ai legali della famiglia Macchi come un campanello d'allarme, tale da indurli a ricusare i giudici.
Invece il processo è andato avanti.
E forse alla fine più della testimonianza dell'avvocato ha pesato la convinzione che comunque quella lettera, chiunque fosse l'autore, non bastava a una condanna all'ergastolo. Soprattutto se sul corpo di Lidia c'erano dei peli: che non erano di Binda.
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