«Alitalia va rilanciata non salvata». La frase, non nuova nella ventennale crisi della compagnia, è stata pronunciata ieri dal ministro dello Sviluppo, Luigi Di Maio, che ha incontrato i sindacati ai quali ha letto un discorso rassicurante («nessun esubero»), che indica linee guida tutte da verificare e auspici impegnativi tipo «vogliamo ambire a nuove assunzioni».
Di Maio ha detto testualmente che il 31 ottobre ci sarà «un'offerta vincolante» per l'acquisto; forse ha dimenticato un «almeno» poiché a gara ancora aperta fare un numero preciso ha odor di scorrettezze. Ieri pomeriggio, con una certa tempestività, un'offerta «non vincolante» è stata presentata dalle Ferrovie, azienda al 100% del Mef; serpeggia l'ipotesi di una cifra, 200 milioni. Tra Fs e Alitalia sarebbe costituita una nuova società comune (newco) nella quale il governo entrerebbe con una quota, si pensa il 15%, convertendo una parte del prestito ponte da 900 milioni. Ora, se il prestito, da restituire in dicembre, è ancora sottoposto alle indagini dell'Ue per sospetto aiuto di Stato, trasformarlo in azioni aggraverebbe la situazione con Bruxelles. Nella newco, secondo il ministro, dovrebbero essere conferiti 1,5/2 miliardi che arriverebbero anche da partner esteri.
Alla sinergia fra treni e aerei, Di Maio mostra di credere appassionatamente, spalleggiato dal premier Giuseppe Conte. Eppure, se i trasporti di cielo e di rotaia hanno un così proficuo ordine di sinergie, perché in nessun altro Paese del mondo esiste un'alleanza di questo tipo? Il biglietto comune - treno più aereo - è una pratica commerciale diffusa. Ma un rapporto societario che cosa aggiunge? La presenza di Fs come riuscirebbe a tamponare le attuali perdite di 1,2 milioni al giorno?
Di Maio ha parlato di una newco. Traducendo in un altro linguaggio, meno felpato, si tratta della vecchia pratica della good company - nuovi soci, solo asset di valore, nuovi capitali - che si contrappone alla bad company, dove restano i debiti: così ancora una volta la crisi di Alitalia ricadrebbe su creditori, fornitori che spesso sono aziende piccole tutt'altro che indifferenti a un contraccolpo del valore complessivo di 3 miliardi (la massa attuale del debito). «Così si ammazza l'indotto» dice da tempo Andrea Giuricin, professore alla Bicocca.
Due miliardi, compresa la conversione del prestito, non sono un grande capitale per una compagnia che dovrebbe puntare al lungo raggio ma che si troverebbe in concorrenza con colossi pressoché impossibili da affrontare.
L'investimento sulla flotta (ricordiamo che un Boeing 787 a listino costa circa 300 milioni di dollari) sarebbe però affidato alla Cdp, che attraverso qualche suo fondo assumerebbe la figura del «lessor», proprietario e locatore di aerei. Una annotazione: Cdp dovrebbe regolare il rapporto con Alitalia a prezzi di mercato, per non scivolare in aiuti di Stato. Ma allora perché non rivolgersi a operatori esistenti?
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