Coronavirus

La babele dei tamponi di Conte: ecco tutti gli errori fatti

Il caso Genoa, la lite sugli asintomatici, i pochi reagenti e il ritardo sui test rapidi. Sette mesi di caos sui tamponi anti-Covid

La babele dei tamponi di Conte: ecco tutti gli errori fatti

Sembra solo ieri, eppure sono ormai passati otto mesi dalla dichiarazione dello stato di emergenza in Italia. Otto mesi, mica pochi. All’inizio non conoscevamo Sars-CoV-2, dunque un margine d’errore era quasi scontato. Poi però un’alba dietro l’altra, trascorsi circa 240 giorni, invece di migliorare siamo ancora qui a capire quante e quali armi affilare contro la pandemia, se fare i tamponi oppure no, se usare quelli molecolari, gli antigenici, i salivari o i sierologici. E questo, sì, è un problema.

Ieri il Cts ha dato il via libera all’utilizzo dei test rapidi nelle scuole. Ad oggi un bimbo con un banale raffreddore è costretto a rimanere a casa fino all’arrivo del risultato del tampone classico. Occorrono un paio di giorni per richiederlo, almeno uno per realizzarlo e altri due per ricevere il risultato. E così per colpa di un po’ di moccio vola via una settimana di scuola (e di lavoro per i genitori). Una trafila insostenibile, che - si spera - i test rapidi dovrebbero risolvere. Bene. Quel che tuttavia non si comprende, è per quale motivo ci sia voluto così tanto tempo per arrivare alla validazione di un sistema che all’aeroporto di Fiumicino si utilizza sin da Ferragosto. Invece di investire milioni di euro in banchi monoposto con cui distanziare alunni che al suono della campanella tornano ad abbracciarsi al parco giochi, non si poteva puntare tutto sul rendere il più rapido possibile lo screening di eventuali sintomatici? Forse sì, ma il ritardo non deve sorprendere. Sin dall’inizio della pandemia, infatti, il governo sul tema tamponi ha vacillato pericolosamente, incapace di indicare la retta via a tutto il Paese.

Un operatore sanitario in un reparto di terapia intensiva
Un operatore sanitario in un reparto di terapia intensiva (La Presse)

Il primo errore ha forse contribuito a diffondere il virus a macchia d’olio. Come ricostruito nel Libro nero del Coronavirus. Segreti e retroscena della pandemia che ha sconvolto l’Italia (Historca Edizioni), il 22 gennaio una circolare del ministero della Salute permette di sottoporre a tampone chiunque si presenti in ospedale con sintomi anomali. La strategia è corretta e giustamente prudente. Poi però cinque giorni dopo Speranza fa un inatteso passo indietro e restringe il campo ai malati di polmonite che siano passati dalla Cina o siano stati a contatto con un positivo. Centinaia di persone sintomatiche, così, tra gennaio e febbraio circolano liberamente, convinti di essersi presi una banale influenza. Nessuno li sottopone a test, nonostante quella tosse così persistente, perché la circolare non lo prevede. E loro contribuiscono a diffondere il contagio.

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Ma di tentennamenti governativi è piena la storia di questo virus. Basti pensare al balletto “asintomatici sì, asintomatici no”. Oppure agli scontri sui test sierologici. O ancora alla diatriba sulle patenti di immunità in vista delle vacanze estive. Senza dimenticare, più recentemente, la "Waterloo dei tamponi" (Bassetti dixit) sulla positività dei calciatori del Genoa in Serie A. Fino alla scorsa settimana il protocollo prevedeva di sottoporre i campioni al test ogni quattro giorni. Poi Spadafora entusiasta ha annunciato "la riduzione dei tamponi, andando oltre la richiesta della Federcalcio". Oggi viene effettuato solo 48 ore prima del match (come altrove in Europa), a meno di situazioni particolari. Come il caso Genoa. Quando Perin e Schone sono risultati positivi, infatti, il team è stato costretto a due giri di test. I risultati sono stati incoraggianti e così la squadra è volata a Napoli rimediando sei gol. Dopo il match, la cruda verità: altri 12 sono positivi, forse hanno infettato gli avversari e campionato è già a rischio. E così il governo, che solo pochi giorni fa esultava per la riduzione dei test, ora chiede schizofrenicamente lo stop delle competizioni. La verità è che sul tracciamento dei contagi, per quanto Conte rivendichi di essere al top nel mondo, l’Italia ha vissuto (e in parte vive) un vero e proprio caos. Per capirlo basta guardare al tema dei reagenti: solo il Veneto, in totale autonomia e sfidando le indicazioni romane, è riuscito nella prima fase a tenere il ritmo dell’epidemia. Tutti gli altri sono stati costretti a centellinare i test per non rimanere senza.

Tamponi

Ne sa qualcosa Delia Morotti, residente a Nembro, che la mattina del 23 febbraio va all’ospedale di Alzano Lombardo a trovare i due genitori ricoverati. La sua testimonianza esclusiva, contenuta nel Libro nero del Coronavirus, dimostra il caos di quei giorni. Delia e il marito sono al nosocomio quando la direzione scopre di avere un positivo tra i pazienti. I due per giorni continuano ad avere contatti con i parenti infetti, eppure nessuno li contatterà per sottoporli ad un tampone. Lo stesso accade in Emilia Romagna. A Medicina, uno dei focolai divenuto zona rossa, si verifica una situazione paradossale: i parenti di una delle prime vittime, sebbene rimangano a contatto per giorni con l’infetto, non vengono mai testati. Intanto però girano per la città, fanno la spesa, vivono. “La figlia continuava a lavorare”, racconta una fonte citata nel Libro nero del Coronavirus. Alla fine in famiglia si ammalano quasi tutti. E forse passano il virus ad amici e conoscenti. Un miglior sistema di tracciamento avrebbe evitato guai, ma l’Italia non era pronta.

E non sembra esserlo neppure adesso.

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