
Un processo al governo in contumacia, conto terzi. Un verdetto di colpevolezza già emesso in Parlamento e sui giornali. Uno scalpo da consegnare ai giudici come trofeo della loro campagna elettorale contro la separazione delle carriere. Il capo di gabinetto del ministero della Giustizia Giusi Bartolozzi (nella foto) è la vittima designata di un progetto molto evidente: sarà lei a finire alla sbarra, non potendo processare i ministri Carlo Nordio per omissione, lo stesso Guardasigilli Matteo Piantedosi e il sottosegretario Alfredo Mantovano anche per "concorso in peculato" né il premier Giorgia Meloni per la scarcerazione del criminale di guerra libico Almasri, su cui nulla poteva il governo, come dice la legge 327 del 2013 che regola i rapporti con la Corte penale internazionale che Pg e Corte d'Appello hanno mal interpretato.
In qualche modo l'ha fatto presagire il leader Anm Cesare Parodi, in quella frase dal sen fuggita sulle "conseguenze politiche nei confronti dei ministri" che avrebbe un processo "che accertasse in via definitiva certi fatti". Quale processo? A chi? Al braccio destro di Nordio, ovviamente, che al momento non è indagato ma chissà... Nelle 91 pagine firmate dai giudici Maria Teresa Cialoni, Donatella Casari e Valeria Cerulli con la richiesta di autorizzazioni a procedere in Parlamento, il nome della Bartolozzi effettivamente compare diverse volte e in un passaggio dei giudici viene specificato che la sua versione "è da ritenere sotto diversi profili inattendibile, intrinsecamente contraddittoria e anzi mendace". Perché se è vero come dice a verbale che "sentiva Nordio quaranta volte al giorno" l'ipotesi che non l'abbia informato subito dell'arresto di Almasi non reggerebbe. La Procura di Roma starebbe già valutando un filone investigativo nuovo che coinvolgerebbe la dirigente di via Arenula (ma non solo) per aver "sottratto a Nordio elementi tecnici da valutare e tenere in considerazione ai fini della decisione da assumere". Ma Nordio aveva 20 giorni, una volta convalidato l'arresto.
Perché la questione è un'altra. Poteva la Bartolozzi impedire la scarcerazione di Almasri, eventualmente informando formalmente e tempestivamente il ministro la mattina di domenica anziché il giorno successivo? No. Il Pg doveva eseguire la misura cautelare, non aveva potere discrezionale né poteva sollevare questioni tecniche sul fermo di Almasri al Guardasigilli. Lo ha scritto persino il predecessore della Bartolozzi Raffaele Piccirillo a Repubblica lo scorso 18 luglio ma nessuno se n'è accorto o vuole capirlo. È solo dopo la convalida dell'arresto che sarebbe entrato in scena il ministro della Giustizia. Il quale - a rigor di legge, basta leggerla - aveva 20 giorni per decidere se consegnare o meno Almasri all'Aja.
A far cadere in errore il Pg sarebbe stata una telefonata "informale" tra l'allora capo del Dag Luigi Birritteri e il Procuratore generale Giuseppe Amato sull'irritualità dell'arresto - perfettamente regolare, invece - e sull'inopportunità di applicare l'articolo 716 del Codice di procedura penale, che invece avrebbe potuto "congelare" il fermo di Almasri in attesa dei dubbi sull'arresto.
Tanto che nel frattempo il delegato della Cpi Rod Rastan già chiedeva lumi sulla data dell'udienza di convalida e sulla consegna di Almasri, come se fosse sicuro che niente avrebbe mai potuto farlo scarcerare, né tantomeno l'istanza del legale. Un errore che ha contagiato la Corte d'Appello, che l'ha scarcerato subito anche se per la 237/2012 aveva altre 24 ore. Ma perché non si chiede a Perugia di valutarlo?