«Il Pd rischia di diventare il più grande nemico di sé stesso». Stavolta non è il solito Pippo Civati, sempre con un piede dentro e uno fuori, a parlare. E non è neanche l'oppositore Gianni Cuperlo, o il frondista in servizio permanente Stefano Fassina. Stavolta, l'affondo critico al renzismo di governo arriva dal cuore del «renzismo originario», come lo chiama lui, ossia Matteo Richetti. Il giovane deputato si è ritirato dalle primarie dell'Emilia Romagna dopo aver appreso di essere indagato per le cosiddette «spese pazze» della Regione («C'era una contrarietà totale del Pd alla mia candidatura, sia locale, sia nazionale», spiega) e non ci va leggero con il governo: «Quando si governa - dice - la dinamica della proposta non è: sparo l'annuncio, ti faccio discutere per settimane, per poi scoprire che la proposta non è percorribile. La vicenda del Tfr mi indispettisce. Quando si governa si lavora diversamente». Anche sull'articolo 18, afferma, la discussione è stata «poco chiara», non basta il contratto a tutele crescenti ma occorre «riscrivere tutto lo Statuto». E poi, infierisce, «come si fa a fare una battaglia epocale sul lavoro col capogruppo (Speranza, ndr) che si astiene in direzione?». Con Matteo Renzi, ricorda Richetti, «ci siamo candidati a guidare il Pd e a guidare il paese per cambiarlo. Se quando arrivi alla guida rinunci a cambiare non hai fatto tutto il tuo lavoro».
I due Mattei, quello toscano e quello emiliano, furono fianco a fianco fin dalle prime Leopolde, e quando Richetti - ex presidente del Consiglio regionale dell'Emilia Romagna - approdò alla Camera dei deputati nel 2013 molti scommisero che il giovane neo-parlamentare sarebbe presto divenuto uno dei volti nuovi in prima fila nel nuovo Pd renziano, e poi nel nuovo governo renziano. Le cose non andarono esattamente così, e oggi Richetti è il primo supporter della prima ora del premier che ne critica apertamente l'operato.
Lo ha fatto ieri, intervistato su Rai3 da Lucia Annunziata, rivendicando di non essere uno «yesman», lamentando che molti di coloro che insieme a Renzi iniziarono la lunga marcia alla conquista del Pd ora sono stati «messi ai margini» e chiedendo «un rilancio dello spirito originario e questo lo deve fare Renzi: il renzismo originario prevede qualche comparsata in meno e un po' di studio e di approfondimento in più».
Le sue esternazioni hanno subito oscurato gli attacchi della minoranza Pd al governo e l'ennesima puntata dello sfoglio della margherita da parte di Civati: mi scindo o non mi scindo, mi scindo o non mi scindo? «Leggo che Civati continua a parlare di scissione perché in tanti lo chiederebbero. E falla 'sta scissione, Pippo, invece di parlarne», sbotta su Twitter Stefano Esposito, senatore Pd e «giovane turco».
La scissione però è di là da venire, anche se il movente per la rottura, ossia il diritto del lavoro, «è quello giusto», come ammette Civati: «La tentazione di uscire dal Pd è forte - spiega alla Stampa - e l'ipotesi è quella di costruire una cosa nuova con Sel che vada naturalmente oltre Sel. Ma ci vuole una sfida elettorale che faccia precipitare la situazione». Insomma, se Renzi è tentato da elezioni anticipate in primavera, sappia che «qualcosa nascerà a sinistra». Anche se, ammette Civati, «mi aspettavo più coraggio dalla minoranza Pd», che per ora non pare affatto interessata a seguirlo fra le braccia di Vendola con Mineo e Paolo Ferrero.
D'altronde lo stesso leader di Sel è prudente, perché sa bene che se non si staccherà un pezzo significativo di ex Ds dal Pd (ma quelli, si è capito, preferiscono aspettare che Renzi si logori e gli renda il Pd) si finirà solo per mettere assieme la solita minoritaria sinistra arcobaleno. Il «Patto degli Apostoli», come lo chiama Civati contrapponendolo al famigerato Patto del Nazareno, rischia di avere dodici leaderini e altrettanti elettori.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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