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Basta con il porgere l'altra guancia

Sarebbe bello che i pakistani italiani, che sono per la grandissima parte lavoratori musulmani, non si limitassero a dire «no» al terrorismo, come hanno fatto, ma condannassero pubblicamente la legge sulla blasfemia che fornisce un alibi per tenere sotto schiaffo i cristiani

Basta con il porgere l'altra guancia

Lahore, Punjab, Pakistan. Un parco giochi. Bambini e mamme per festeggiare la Pasqua dopo la Messa. Le altalene, gli scivoli. Stai attento, non andare troppo veloce che cadi. Uffa, mammina, spingi più forte, dai. Le lingue cambiano, ma anche in urdu (che è la parlata locale) le risate suonano come in tutto il mondo quando i piccini si divertono e si sentono sicuri sotto lo sguardo di madri e padri. Hanno mirato lì. Un kamikaze si è avvicinato, avrà senz'altro sorriso, per occultarsi meglio nella letizia pasquale dei cristiani, e ha amato così tanto la morte di quei nemici di cinque, sei, dieci anni da sacrificare se stesso per ammazzarli. In nome di che cosa? Ma certo: la conquista del mondo per la bandiera islamica e il Paradiso con 72 vergini per se stesso. 72 come i cadaveri disseminati nel parco giochi, secondo il calcolo provvisorio della polizia, insieme con i 350 feriti. Come siamo ingenui a stupircene. A pensare che a questo segno non può esserci creatura umana che osi anche solo ipotizzarlo. Invece hanno progettato esattamente queste morti. Siccome le autorità del Pakistan cincischiavano, giravano intorno con parole di dolore universale, a quegli almeno 40 bambini straziati, ci hanno pensato i Talebani a spiegare che non erano bimbi qualsiasi, ma erano bimbi cattivi, maledetti. Questo gruppo non si sa se più vicino alla memoria del Mullah Omar, di Bin Laden oppure in avvicinamento ad Al Baghdadi non avevano di mira l'umanità in generale, ma c'era un bersaglio particolare, e così ci hanno pensato loro ad aprire gli occhi al mondo. Il portavoce di un gruppo di fondamentalisti, ha spiegato con voce ferma che vogliono annientare loro, «la minoranza cristiana». Che ci fanno ancora lì? Perché non se ne vanno? Costoro oggetto di un dichiarato genocidio resistono da anni alle persecuzioni, agli assalti nelle chiese, tempo fa cinquecento tranquilli islamici del loro stesso villaggio hanno buttato una coppia di cattolici nella fornace per cuocere i mattoni, sostenendo ridicolmente che avesse stracciato una pagina del Corano. Nella Repubblica islamica del Pakistan (nome ufficiale) c'è una piccola eroica minoranza, orgogliosa della propria fede. Sono 2.800.000 su 200 milioni. Compongono la classe sociale più povera, li isolano, li sbattono appena possono in galera con accuse assurde, con la compiacenza del governo, che è nostro alleato, parbleu, lo è davvero. Non hanno mai fatto male a una mosca, i cristiani da quelle parti. Eppure c'è una legge contro la blasfemia, che serve a tenerli a bada, a minacciarli. In carcere c'è ancora una donna, che si chiama Asia Bibi, anche lei del Punjab, condannata a morte perché avrebbe sostenuto con delle compagne di lavoro nei campi la superiorità del Vangelo sul Corano. È dentro da 7 anni. Non si riesce a togliere questo ostaggio cristiano dalle mani dei persecutori, e forse non lo si vuole neppure. Chi ci ha provato è stato un audace musulmano, Salmaan Taseer, governatore del Punjab, assassinato per questo. Così come il ministro cattolico, l'unico, del governo, Paul Batthi. Il Papa ieri ha alzato la sua voce con forza inusitata. Conosce bene la situazione dei cristiani perseguitati in Pakistan, ma non aveva citato questo Stato nel discorso di Pasqua a proposito di persecuzioni, né tanto meno ha mai fatto il nome di Asja Bibi in pubblico, perché le autorità pakistane la liberassero, come invece fece Benedetto XVI, né ha ricevuto in udienza la sua famiglia in visita a Roma, limitandosi a un saluto tenendoli ben separati dalle transenne. Difficile fare il Papa, e certamente è impigliato dai lacci della burocrazia diplomatica, che non hanno invece imbrigliato la Santa Sede nel chiedere giustamente l'abrogazione della pena di morte negli Usa.

Neppure ieri, dinanzi a questa strage inaudita, ha esordito al «Regina Coeli» con la tragica notizia, bensì con il solito ormai stucchevolmente rivoluzionario «buongiorno». Poi però non ha lesinato il j'accuse. «Ieri, nel Pakistan centrale, la Santa Pasqua è stata insanguinata da un esecrabile attentato, che ha fatto strage di tante persone innocenti, per la maggior parte famiglie della minoranza cristiana - specialmente donne e bambini - raccolte in un parco pubblico per trascorrere nella gioia la festività pasquale». Ha chiesto un'Ave Maria, prima di salutare tutti con il «Buon pranzo». Io direi: che ci vada di traverso, qualche volta: sarebbe meglio. Nei giorni scorsi aveva attaccato i commercianti d'armi, ma non tocca mai il nome dell'ideologia religiosa che arma i kamikaze, e che si chiama islamismo. Eppure a tutti chiede il parlar sincero, la parresìa. E se lui non può dirlo, per favore, qualcuno chiami le cose con il loro nome, come fece Ratzinger a Regensburg il 12 settembre del 2006. Sarebbe bello che i pakistani italiani, che sono per la grandissima parte lavoratori musulmani, non si limitassero a dire «no» al terrorismo, come hanno fatto, ma condannassero pubblicamente la legge sulla blasfemia che fornisce un alibi per tenere sotto schiaffo i cristiani. Ma non accadrà neppure stavolta. Colpisce che le agenzie internazionali, non abbiano accennato se non dopo ore e ore, a chi fosse il bersaglio, cioè i cristiani. Colpisce che in precedenza in Italia abbia avuto scarsissima eco, e nessuna volontà parlamentare o ecclesiastica affine, la deliberazione del Congresso americano che ha definito genocidio contro i cristiani quello in corso nel nostro tempo. Mentre in Italia ed in tutta Europa si colpisce con zelo piuttosto vile, accusandolo di islamofobia, come denunciato ieri proprio a Pasqua da Vittorio Feltri sul Giornale, chi osa eccepire sulla natura pacifista immanente all'islam.

Forse sarà il caso che ci ricordiamo che se Gesù ha chiesto di porgere l'altra guancia, non ha esteso questo concetto ai bambini e alle loro madri.

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