Tra bastone e carota. I dieci mesi ondivaghi di Donald sull'Ucraina

I colpi di scena: dall'umiliazione di Zelensky al vertice in Alaska. Dove per il "Ft" c'è stato gelo e zero sorrisi

Tra bastone e carota. I dieci mesi ondivaghi di Donald sull'Ucraina
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Nei primi nove mesi del suo mandato alla Casa Bianca cominciato lo scorso 20 gennaio, Donald Trump di cui è nota l'influenzabilità quando si occupa di questioni non strettamente economiche - ha cambiato nettamente atteggiamento nei confronti di Putin e Zelensky almeno due volte e probabilmente sta virando di 180 gradi per la terza.

Riavvolgiamo il film. Il punto di partenza era stato angosciante per l'Ucraina. In campagna elettorale (le presidenziali Usa si sono tenute il 5 novembre scorso) Trump e il suo vice Vance avevano ripetuto con toni anche sprezzanti che il loro approccio verso la guerra in Ucraina sarebbe stato del tutto diverso da quello di Joe Biden, impostato sul sostegno anche militare al Paese aggredito in nome dei comuni valori occidentali: frasi peggio che esplicite come "questa non è la nostra guerra" e "non ci importa un accidente del destino dell'Ucraina" erano all'ordine del giorno. E quando il candidato alla presidenza Usa promise di "metter fine alla guerra entro 24 ore dalla mia nomina", Zelensky aveva fondatamente temuto che questo avvenisse ai danni del suo Paese e favorendo Putin, per il quale Trump ha sempre tradito un debole.

Il 28 febbraio, Zelensky fu ricevuto alla Casa Bianca per un incontro che segnò il punto più basso nei suoi rapporti con Trump. Fatto bersaglio di toni irrispettosi, il leader ucraino non seppe resistere all'istinto di reagire con orgoglio (da allora si è parlato di "trattamento Zelensky" per riferirsi a modalità insolenti mai prima di allora usate verso un ospite di un presidente americano) e fu praticamente cacciato dopo che Trump gli aveva ricordato a muso duro che "non aveva carte in mano" contro la Russia. Due mesi dopo, al funerale di Papa Francesco in Vaticano, una prima parziale inversione di rotta. Accomodati su due sedie nella Basilica di San Pietro, Trump e Zelensky tornarono a parlarsi civilmente. Trump continuava a mettere aggredito e aggressore sullo stesso piano, ma cominciava a sentire l'influsso di soggetti terzi come re Carlo d'Inghilterra, che gli caldeggiavano la causa ucraina. Di malavoglia, Trump accettò una graduale ripresa di forniture d'armi a Kiev, purché non pagate dagli Stati Uniti, e Zelensky poté tirare il fiato.

In agosto, nuova doccia gelata per il leader ucraino. Trump decise di invitare Putin a un vertice a due "per la pace", che infranse l'ostracismo occidentale contro il leader russo. L'incontro si svolse in Alaska, fu visto come un enorme successo per Putin ma in realtà rappresentò una sorta di apice nei suoi rapporti con Trump, dopo il quale tornarono a peggiorare. Questo perché Putin interpretò quel Ferragosto ad Anchorage come un via libera di Trump a devastare l'Ucraina prima di un negoziato di pace indefinito nel tempo anche se un retroscena del Financial Times descrive l'incontro come molto difficile, con Trump non poco irritato verso lo Zar. Trump si aspettava che Putin alla fine si sedesse a un tavolo per fermare la guerra, cosa di cui il dittatore russo non aveva alcuna intenzione. L'ondivago successore di Biden la prese come un'offesa personale, e riprese a strizzare l'occhio a Zelensky fino ad aprire all'ipotesi di fornirgli i potenti missili a lunga gittata Tomahawk.

Prospettiva che ha molto preoccupato Putin, che il giorno prima dell'incontro Trump-Zelensky di ieri è ricorso alla sua arma di seduzione: due ore di telefonata con il presidente Usa, con interessati complimenti per il successo di Gaza,

promesse di grandi affari commerciali bilaterali e "consiglio" di rinunciare ai Tomahawk per non rovinare il ritrovato idillio. Le ultime notizie dicono che Trump non abbia ancora tolto i suoi missiloni dal tavolo. Non ancora.

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