Riccardo Pelliccetti
È buio nella cittadina vicentina di Schio. Il silenzio e il calore estivo hanno addormentato il centro abitato creando un'atmosfera surreale. Ma qualcuno è ancora sveglio e suoi passi rompono la quiete della notte fra il 6 e il 7 luglio 1945. Sono uomini armati che irrompono nel carcere mandamentale assetati di sangue. È un commando partigiano della Brigata Garibaldi che, a guerra terminata, ha deciso di passare per le armi i detenuti. «Sono fascisti», continuano a ripetere. A guidare il gruppo sono Igino Piva, detto «Romero», e Valentino Bortoloso, detto «Teppa». Non possiedono l'elenco dei prigionieri politici e così decidono di scegliere le vittime tra i 99 detenuti, senza porsi il problema che siano compromessi o meno con l'ex regime. L'inchiesta in corso deve ancora accertare le eventuali responsabilità. Addirittura alcuni devono essere scarcerati, ma l'italica lentezza burocratica lo ha impedito. I partigiani decidono allora di escludere dieci detenuti, otto dei quali in carcere per reati comuni. Dopo questa approssimativa selezione, che desta contrasti fra gli stessi fucilatori, qualcuno propone di risparmiare le donne, molte delle quali sono in galera per legami personali con i fascisti e per indurle a testimoniare contro di loro. Ma Valentino «Teppa» Bortoloso è irremovibile. «Gli ordini sono ordini e vanno eseguiti», afferma.
Dopo un'ora di discussioni e incertezza, mentre alcuni partigiani refrattari se ne vanno, «Teppa» e compagni trucidano a colpi di mitra 54 persone, fra cui 14 donne: la più giovane ha 16 anni. L'eccidio fa clamore non solo in Italia e le autorità angloamericane spingono per l'apertura di un'inchiesta, in seguito alla quale si scopre che di fascisti in quella prigione ce n'erano una ventina. Dopo il primo processo del governo militare alleato, che identifica quindici fucilatori, vengono emesse tre condanne a morte e lunghe pene detentive. Otto autori della strage riparano in Jugoslavia dove ottengono protezione, per gli altri scatta l'arresto. Tra i condannati a morte c'è Valentino «Teppa» Bortoloso che in seguito godrà dell'amnistia e uscirà dal carcere.
Qualcuno si domanderà perché rievochiamo questo storico fatto di sangue. La risposta è semplice: uno dei fucilatori, il capobanda Valentino Bortoloso, è ancora vivo e oggi ha 93 anni. Sin qui nulla di strano, almeno fino allo scorso aprile, quando le nostre illuminate autorità hanno deciso di decorarlo con la medaglia della Resistenza. Un'onorificenza inventata dal governo, e precisamente dal ministro della Difesa Roberta Pinotti, per premiare i protagonisti della lotta partigiana. Non c'è da meravigliarsi, ormai una medaglia non si nega a nessuno. Forse non tutti ricordano che anche il maresciallo Tito è stato decorato dalla presidenza della nostra Repubblica. Il dittatore comunista, infatti, ha ricevuto il Gran Cordone di Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al merito della Repubblica per aver infoibato migliaia di italiani e compiuto una radicale pulizia etnica nella Venezia Giulia e Dalmazia. Bortoloso, quindi, nonostante le 54 persone trucidate e la sua condanna per un crimine così efferato, è stato premiato. Complimenti.
Adesso bisognerebbe scoprire chi è il fenomeno che ha indicato il suo nome fra gli 83 da decorare. La Pinotti, in imbarazzo, replica che a scegliere sono le associazioni partigiane: «È in capo a loro la stesura dell'elenco». Un applauso al ministro, che lavora sotto dettatura.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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