Si ritira sull'Aventino Bersani, e con lui parte della minoranza Pd. «Eccesso di polemica», la bolla il vicesegretario Lorenzo Guerini. «Vuol fare il Bertinotti del 2015, ma non ha i numeri», infierisce Matteo Renzi. La «Leopolda» dei parlamentari democrat al Nazareno, disertata dalla fronda, si tiene lo stesso: partecipano in più di 200, si discute di elezioni regionali (probabilmente si voterà il 10 maggio, dice il premier), di scuola e della riforma del governo che andrà in Consiglio dei ministri martedì prossimo (mentre fuori dalla sede Pd un gruppetto di 30 studenti contesta strepitando: «La scuola è nostra, guai a chi la tocca»). Si parla anche di Rai. E il premier annuncia tra 15 giorni un disegno di legge di riforma della tv pubblica, sul quale «verificheremo anche le aperture di Grillo».
Alla fine è la minoranza a dividersi: Bersani e i suoi stanno a casa, Pippo Civati dice: «Ho judo», Gianni Cuperlo manda una lettera, Stefano Fassina definisce la riunione «una farsa che serve solo a celebrare la nascita della corrente renziana». Ma diversi esponenti della sinistra interna vanno lo stesso, a cominciare dal capogruppo Roberto Speranza, ma anche Francesco Boccia e Cesare Damiano. E forse non è un caso che si tratti di due presidenti di commissione (Bilancio il primo, Lavoro il secondo): dietro il plateale strappo della minoranza anti Renzi c'è infatti il timore fondato che Renzi decida di metter mano agli assetti parlamentari del Pd, in modo che rispecchino la nuova maggioranza del partito e non siano più bloccati da chi «rema contro» il premier-segretario.
A giugno, infatti, secondo la consuetudine parlamentare che si ripete ad ogni metà legislatura, verranno confermate (o meno) tutte le squadre delle commissioni, a cominciare dalle presidenze, e dei gruppi. Renzi non sembra avere alcuna intenzione di scalzare Speranza, che - nonostante le ultime uscite critiche verso il governo sul Jobs Act - rappresenta l'ala dialogante della minoranza. Ma non vuole più trovarsi a fare i conti con il fuoco amico e il boicottaggio anti-governativo in postazioni chiave. L'elenco è lungo: oltre alle commissioni Bilancio e Lavoro (zeppa di ex Cgil) ci sono quelle per le Attività produttive (presiedute alla Camera da Epifani e al Senato da Mucchetti, entrambi anti-renziani), e la fondamentale commissione Affari Costituzionali: al Senato è presieduta da Anna Finocchiaro e alla Camera dal fittiano Sisto, ma sono soprattutto le squadre del Pd che rappresentano una specie di falange macedone contro le riforme del premier: Bersani, Bindi, Cuperlo, Giorgis, Pollastrini, Meloni, D'Attorre alla Camera; Gotor, Migliavacca, Lo Moro al Senato. E poi c'è la commissione di Vigilanza, dove la squadra Pd si è accodata nel voto contrario sulla proposta Gubitosi di ristrutturazione dell'informazione. «Occorre cambiare molte cose che risalgono alla passata gestione, il Pd ha eletto un segretario e ha votato un premier nel frattempo», dicono dalle parti di Palazzo Chigi. Del resto, la nascita di un correntone renziano nei gruppi parlamentari serve anche a rafforzare la linea di maggioranza in vista di questo appuntamento. Che spaventa comprensibilmente la minoranza.
Prima di lasciare Roma, Bersani ha fatto sapere di aver avuto un amichevole colloquio con Renato Brunetta, a Montecitorio, seguito dagli auguri del brunettiano Mattinale all'ex segretario Pd («Forza Bersani»). Indizio chiaro del tentativo della minoranza di stipulare un contro-patto del Nazareno, per convincere Berlusconi a boicottare l' Italicum .
Non a caso, nella lettera di Cuperlo si illustrano le condizioni per votare le riforme: dimezzamento dei capilista bloccati, collegamento con la riforma del Senato (con l'obiettivo di farli saltare entrambi in un colpo solo) e apparentamento delle liste tra primo e secondo turno. Un amo offerto a Forza Italia, interessata a ricostruire una coalizione, per attirarla dalla propria parte.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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