N on è usuale che un ex segretario di partito minacci velatamente la scissione. Ma ieri è successo, ovviamente nel Pd dove le convulsioni anti-renziane della minoranza interna stanno raggiungendo il plateau in vista del voto per il Colle. Così Pier Luigi Bersani ieri, dopo la batosta incassata in Senato sull'Italicum (ma anche alla Camera sulla riforma del Senato), ha convocato nel pomeriggio i parlamentari della minoranza a Montecitorio e è entrato nella riunione lanciando parole di fuoco contro il segretario e premier del suo partito: «Renzi lo sa benissimo, c'era una possibile mediazione sull'Italicum e loro non hanno voluto mediare. Ora spetta a lui dire se si può partire dall'unità del Pd». E poi, citando la battuta sfuggita in un'intervista al bellicoso senatore Stefano Esposito, autore dell'emendamento che ha sbloccato l'Italicum, l'ex leader ha tuonato: «Dare del parassita a Corsini, Gotor, Mucchetti, è pericoloso. È gente per bene che non chiede niente e va trattata con rispetto. Se viene meno il rispetto, è finita». Il renziano Guerini richiama tutti al «rispetto», mentre il premier liquida così il dissenso: «Prendo atto che una parte della minoranza ha deciso di muoversi in autonomia. Credo che neanche i militanti Pd che hanno votato contro di me però condividano questo atteggiamento. Che comunque è ininfluente sul risultato finale».
La convocazione dei 140 parlamentari che formalmente fanno parte della minoranza Pd è una prova di forza in vista della partita del Quirinale, ultima chance per indebolire Renzi. La verità scappa di bocca all'impulsivo Alfredo D'Attorre: «Dopo l'elezione del presidente della Repubblica chiederemo il congresso per tornare maggioranza nel Pd». Non che lo chiederanno veramente, a rischio di essere definitivamente asfaltati, ma - più che una scissione senza meta - è l'ansia di recuperare il controllo della Ditta ad animare la svolta belligerante. E il fatto che Renzi si muove senza rispettare alcuna regola dell'antico galateo: caminetti, summit dei capicorrente, condivisione delle scelte, spartizione delle cariche: «Pier Luigi è determinato, e pure tanto: ma vi pare che si deve votare il successore di Napolitano e lui non sa neanche chi abbia in mente il nostro segretario?», lamenta il bersaniano Nico Stumpo. Nel colloquio con il premier di una settimana fa, Bersani non ha avuto nessuna informazione precisa sullo schema di gioco renziano, né alcun invito ad entrare in partita come kingmaker , e sono cose che pesano. Di qui l'innalzamento dei toni e del livello di lotta interno, e la manovra a tenaglia tra Senato e Camera per far inciampare le riforme renziane.
I numeri, però sono stati ben al di sotto delle aspettative per la minoranza: ventidue i senatori ribelli contro l'Italicum, una cinquantina i deputati che ieri - rinunciando in extremis a votare contro - sono usciti dall'aula per non votare l'emendamento di maggioranza che introduce i cinque senatori di nomina presidenziale nel nuovo Senato. In casa renziana fanno i conti in funzione Quirinale: «Se il Pd è compatto, salvo la settantina di frondisti, e Berlusconi tiene i suoi come ha dimostrato sull'Italicum, alla quarta votazione eleggiamo il nuovo capo dello Stato. E poi alla fine Matteo gli metterà sul piatto un nome cui sarà difficile per loro dire di no». E spiegano: «Al Senato Bersani ha costruito bene il suo gruppetto di fedelissimi. Alla Camera però il grosso dei suoi eletti, soprattutto i giovani, sanno che sarà Renzi a portarli al voto e si guardano bene dal suicidarsi per lui».
Nella riunione dei 140 le divisioni della minoranza sono venute alla luce, e c'è
stata più di uno scontro sulla gestione delle iniziative parlamentari. «Ma saremo uniti e determinati sul presidente, per evitare scelte al ribasso», giura D'Attorre. Il nome più gettonato resta quello di Anna Finocchiaro.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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