Bivacchi nel cuore di Roma: qui gli sgomberi non esistono

Accanto alla stazione Termini 400 eritrei vivono in un edificio occupato. E il Comune non fa nulla per evitare l'invasione

Bivacchi nel cuore di Roma: qui gli sgomberi non esistono

Le telecamere a circuito chiuso inquadrano l'ingresso. Adhanom, un casco di capelli neri e ricci e gli occhi vigili, non stacca lo sguardo dagli schermi: «Dentro foto no». È il custode del palazzo, staziona alla reception. Sulla guardiola sono appese scritte in arabo, da uno scaffale sbucano un paio di jeans e alcuni maglioni. Appesi a un gancio, due sacchi neri dell'immondizia. Decine di uomini di colore entrano ed escono portando la spesa.

Sembra la hall di un grande residence di un paese africano, e in effetti questa è una cittadella dove sono in vigore regole precise e il controllo degli ingressi è garantito ogni minuto. Anche se il contesto non è legale: via Curtatone 3 è un palazzo occupato. Ci vivono più di quattrocento persone, sono rifugiati eritrei. Il loro palazzo è formato da sette piani, un enorme edificio accatastato come D8, uffici pubblici, dove fino a poco tempo fa si trovava la sede dell'Ispra, l'istituto per la protezione ambientale. Al catasto proprietario risulta essere il fondo Omega immobiliare. Gli eritrei, tra cui una cinquantina di minori, sono qui da più di un anno. L'amministrazione romana, che ha chiesto allo Stato più rifugiati, in questo posto è completamente assente: «Abbiamo scritto al Comune ma non ci rispondono», denuncia il paradosso Adhanom.

Qui non è periferia, non è Tor Sapienza, ma è il pieno centro di Roma, una traversa di piazza Indipendenza. La Stazione Termini si trova a circa duecento metri, ancora più vicina è la Biblioteca Nazionale. In una strada parallela c'è la sede del Municipio II e dei vigili urbani, poco accanto i carabinieri. Sembra a tutti gli effetti un'occupazione tollerata. Il Comune di Roma, che aveva chiesto più rifugiati allo Stato di quelli assegnati, in realtà ora non sa dove alloggiarli: non ci sono strutture e i cittadini non vogliono nuovi arrivi. E allora a via Curtatone va bene così.

Cosa chiedete al Comune? «Assistenza», risponde Adhanom. «Come vivete qui dentro?». Alza le spalle: «Bene». Gli ex uffici dell'Ispra sono stati adattati a stanze, con materassi e comodini. Vietato bere alcolici. Tutti sembrano sottostare agli ordini del custode-portavoce: «Oggi non possiamo parlare, vieni domani». Qualcuno dei ragazzi invece attacca il discorso, spiega che loro non c'entrano niente con le persone che occupano a Milano. Qui l'esproprio è una necessità. Comunque via Curtatone 3 è diventata casa: il palazzo ha un suo indirizzo di posta con l' account gmail . Alle finestre si vedono calzini rossi e parei usati come tende. Si spediscono mail anche al Comune. Invano, appunto.

Alla sede del Municipio II di via Montebello non si occupano di via Curtatone perché, pur essendo il palazzo a un tiro di monetina, la strada è di competenza del Municipio I, a sei chilometri di distanza: «Noi dobbiamo gestire l'occupazione di viale del Policlinico», spiegano al settore Servizi sociali. Sì, perché questa zona centralissima di Roma è un fiorire di occupazioni. Vicino al Policlinico vivono soprattutto marocchini, poi c'è un altro palazzone, ancora più grande di via Curtatone: ex sede Inpdap, un colosso di cemento da 78mila metri cubi, in via Santa Croce in Gerusalemme 55. La proprietà è del Fip, Fondo immobili pubblici. Anche questo occupato da poco più di un anno. È abitato da almeno duecentocinquanta persone, italiani e stranieri. Ma c'è ancora tanto posto.

Ogni martedì si forma una fila di gente che chiede ospitalità: è il giorno dedicato ai nuovi.

Quasi a San Giovanni, invece, in viale Carlo Felice, lo storico palazzo occupato ex Bankitalia continua a dare alloggio a un centinaio di persone. È il palazzo dove tre settimane fa una mamma marocchina ha ucciso due dei suoi tre bambini.

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