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BoJo e Jeremy affondati dagli ex premier rivali

Il laburista Tony Blair e il tory John Major per il «no» alla Brexit e un secondo referendum

BoJo e Jeremy affondati dagli ex premier rivali

«La prospettiva è abissale per il Labour nelle piccole città delle Midlands e del Nord. Lì Boris Johnson non piace ma Corbyn proprio non lo sopportano e pensano che il Labour sia bloccato sulla Brexit». La fosca previsione per il partito di opposizione non è di un avversario politico ma del ministro ombra alla Salute, il laburista Jonathan Ashworth, contenuta in una telefonata a un amico registrata e finita in mano ai media in piena chiusura di campagna elettorale, vigilia del voto cruciale di domani, 12 dicembre. Ed è la prova che, nonostante le dubbie performance dei Conservatori dopo il referendum sulla Brexit del 2016, i principali ostacoli all'ascesa di Jeremy Corbyn a Downing Street sono quelli interni. C'è una base che potrebbe abbandonare il suo leader laburista nelle tradizionali roccaforti nel Nord, quelle pro-Leave, a causa della posizione ambigua sull'uscita dall'Unione europea. E c'è una fetta di partito, l'ala più centrista, ancora figlia del New Labour di Tony Blair, che non è convinta della svolta radicale promessa da Jez. La somma di questi fattori potrebbe negare al Labour il salto che cerca.

«Il problema delle rivoluzioni non è mai come cominciano ma come finiscono», ha detto in queste settimane proprio Blair, primo ministro di successo per dieci anni, dal '97 al 2007, il tempo della «Cool Britannia» e di un Partito Laburista che sembrava inarrestabile. La stoccata dell'ex premier è una delle tante dirette all'indirizzo di Jeremy Corbyn e della sua annunciata rivoluzione contro il capitalismo, le privatizzazioni e la politica delle élite. L'ex premier ha già avvertito: «Il populismo di sinistra di Corbyn contro i miliardari e il sistema corrotto non è più accettabile del populismo di destra di Donald Trump».

Blair è la bandiera dell'altro popolo, quello dei laburisti anti-Brexit a cui non importa necessariamente come finiranno le prossime elezioni, purché venga fermato l'addio alla Ue e offerta agli inglesi la possibilità di tornare a dire la loro con un secondo referendum. «Meglio un Parlamento appeso a caccia di una maggioranza - dice Blair - che un Paese appeso a caccia della giusta leadership. Non è la Brexit che sarà fatta, saremo noi che saremo fatti se ci sarà la Brexit».

La sua posizione fa il paio con quella dell'ex premier conservatore John Major. E non a caso entrambi gli ex capi di governo sono intervenuti nei giorni scorsi a un raduno per chiedere un voto bis a Londra, entrambi invitando gli elettori a votare per i candidati anti-Brexit. Dall'alto dei suoi 76 anni e dei 7 passati a Downing Street, anche Major non rema a favore del suo partito ma a favore di una sola causa: lo stop alla Brexit, definita «la decisione di politica estera peggiore» a cui ha mai assistito nella sua vita, quella che «potrebbe distruggere il nostro Paese, che lo renderà più povero e più debole». Anche lui, alla fine, è simbolo e paradigma di un Partito conservatore che sta plasmando la sua storia e la sua natura e che con le elezioni di domani deciderà quale bivio imboccare definitivamente, se prendere la strada di Boris Johnson oppure rivedere la sua linea anti-Europa. «Fermate la valanga Brexit. Votate con la vostra testa per mandare all'aria il piano di Boris Johnson», ha detto Major.

Solo i numeri definitivi del 12 dicembre ci diranno se il Regno Unito imboccherà il sentiero per un addio netto e imminente o se il delirio Brexit ci accompagnerà ancora a lungo.

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