In attesa di sapere se Bruxelles ci sventolerà in faccia il cartellino giallo della procedura d'infrazione, prendiamo e portiamo a casa quello rosso dei mercati. Non è salutare, del resto, esibire debolezze tutte endogene mentre quel passo da elefante in mezzo ai cristalli di Donald Trump è già sufficiente motivo di preoccupazione. Ieri le Borse hanno infatti cominciato la settimana col piede sinistro, ma Piazza Affari ha fatto peggio di tutte sfiorando un tracollo del 3%, con il consueto corollario delle banche in picchiata (-3,4% l'indice di categoria). Il settore del credito è da tempo il più vulnerabile a causa del nodo sofferenze, dei complicati piani di ricapitalizzazione e dei portafogli zeppi di titoli di Stato.
Tre macro-problemi che, inevitabilmente, vanno a intersecarsi anche con la situazione politica. Certo le maggiori probabilità di voto anticipato alimentate dalla decisione della Corte costituzionale sull'Italicum, con la prospettiva che dalle urne non esca un vincitore, non piacciono ai mercati. Così come il braccio di ferro con Bruxelles sulla manovra aggiuntiva. Questi timori di ingovernabilità e di aggiustamento forzoso dei conti pubblici si riflettono sullo spread tra Btp e Bund tedesco, ormai a un soffio da quota 190, il livello più alto da tre anni, e sulle emissioni del Tesoro che ha collocato ieri 6,75 miliardi di euro di Buoni poliennali a 5 e 10 anni, col rendimento del decennale salito al 2,37%. La missione di via Nazionale, ovvero il contenimento dei tassi e il contestuale allungamento della vita residua del debito (la cosiddetta duration), si sta insomma complicando. Ma se anche il più piccolo movimento dei monitoratissimi Btp non passa inosservato, è su un altro fronte, meno in «vetrina», che si possono notare i disagi di via Nazionale. Basta dare un'occhiata al Btp a 50 anni, il bond Matusalemme protagonista nell'ottobre scorso di un vero e proprio sold out, fra richieste di quattro volte superiori all'offerta grazie a una cedola annuale del 2,8% annuale, molto appetita in tempi di tassi a zero. A distanza di circa quattro mesi, quegli investitori istituzionali (tipo fondi pensione e compagnie di assicurazione) che avevano aderito con entusiasmo si stanno leccando le ferite. Oggi il Matusalemme vale 82,25, contro un prezzo d'emissione di poco sotto alla pari (99,194), ma già nei mesi scorsi qualche crepa si era intravista a causa del referendum e delle voci relative a un ritiro delle misure di aiuto da parte della Bce.
Ed è proprio la Banca centrale europea che rischia di complicare - e non di poco - il lavoro del Tesoro. Soprattutto quando comincerà a cambiare la rotta della politica monetaria. La chiave di tutto è l'inflazione, la stella polare dell'istituto guidato da Mario Draghi. Il target ottimale è attorno al 2%, purché non temporaneo e non drogato dai prezzi dell'energia. Il numero uno dell'istituto di Francoforte lo ha ricordato la scorsa settimana per ribadire che non vi sono ancora evidenze di una risalita dei prezzi al consumo. Nel corso dell'anno, l'ex governatore di Bankitalia si troverà però a fronteggiare le crescenti pressioni da parte di quei Paesi in cui l'inflazione ha rialzato la testa mentre noi potremmo ancora essere in deflazione. Germania su tutti, soprattutto dopo che questo mese i prezzi sono balzati all'1,9%.
Qualche giorno fa un falco come Sabine Lautenschlaeger, membro tedesco del comitato esecutivo della Bce, si è detta «ottimista» sul fatto che «presto potremo iniziare a parlare di un'uscita» dal piano di acquisti mensili da 80 miliardi (60 da aprile), ma ieri il suo collega austriaco, Ewald Nowotny, ha sottolineato che solo dalla prossima estate la Bce potrebbe iniziare a discutere di un graduale spegnimento del quantitative easing.Insomma, di tempo non ne rimane molto all'Italia per mettere ordine in casa in quella che ha tutta l'aria di essere davvero una mission impossible.
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