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Le Borse reggono l'urto Ma il petrolio vola e preoccupa l'Occidente

Giù tutti i listini, senza crolli. Brent ai massimi da settembre con rischi di una nuova recessione

Le Borse reggono l'urto Ma il petrolio vola  e preoccupa l'Occidente

La morte per mano americana del generale iraniano Qassem Soleiman è solo l'ultimo round del braccio di ferro fra Teheran e Washington. I rapporti tra i due Paesi sono storicamente tesissimi, e i mercati lo sanno. Eppure, l'attacco militare Usa a Baghdad non è diventato il cigno nero, l'evento inatteso e catastrofico in grado di spezzare le Borse come grissini. I mercati azionari, metabolizzata la prima reazione all'accaduto, hanno infatti chiuso ieri la seduta con ribassi contenuti (-0,56% Milano dopo una picchiata a -1,7%, -0,54% Wall Street a un'ora dalla chiusura). Poi, certo, c'è tutto il corollario da manuale che sempre accompagna fatti che instillano incertezza fra gli investitori: la risalita del prezzo dell'oro ai massimi da quattro mesi (a 1.522 dollari l'oncia), così come i rincari di platino e argento e, soprattutto, il surriscaldarsi del petrolio, con il greggio Usa spintosi fino a 63,88 dollari (+4,46% e picco da settembre 2019) e il Brent che si è avvicinato a quota 70 dollari.

Le quotazioni del barile sono quelle che meglio riflettono i timori di un'escalation delle tensioni in Medio Oriente capace di impattare sulle forniture petrolifere. E' lo scenario peggiore, con variabili nefaste date dal livello delle eventuali rappresaglie iraniane, dall'allargamento del conflitto fino a Israele e dal comportamento della Russia di Putin, sotto la cui ala il regime degli ayatollah gode di protezione assoluta. Un quadro da oil war potrebbe far schizzare i prezzi dell'oro nero sopra gli 80 dollari, aprire la strada a ulteriori rialzi e trascinare il mondo sull'orlo della recessione.

Poi, però, entrerebbero probabilmente in gioco meccanismi di tipo compensativo. Oggi il mondo ha meno sete di energia fossile: la dipendenza dal petrolio si è fortemente ridotta, e l'economia globale è in frenata. L'Opec e gli altri Paesi produttori esterni al Cartello (il cosiddetto Opec+) stanno da tempo contingentando la produzione allo scopo di sostenere i prezzi, messi alla corde dal calo della domanda.

Dal primo gennaio l'output è stato tagliato di altri 500mila barili al giorno, da sommare alla riduzione di 1,2 milioni di barili già decisa in precedenza. Avere prezzi alle stelle non conviene comunque a nessuno. In caso di choc, un ripristino - anche parziale - dei livelli produttivi contribuirebbe perlomeno a stabilizzare le quotazioni. Facile sulla carta, un po' meno all'atto pratico: tratto distintivo dell'Opec è, da sempre, la litigiosità. Più facile mettere d'accordo Salvini e la Fornero. Inoltre, una probabile richiesta di intervento calmieratore da parte degli Usa troverebbe sponda in un alleato come l'Arabia Saudita, ma Mosca come si comporterebbe? Si opporrebbe, oppure direbbe di sì per impedire che quotazioni elevate facciano resuscitare dalla crisi i signori a stelle e strisce del petrolio di scisto?

Insomma: trarre conclusioni oggi è quantomeno affrettato. Resta da sperare in una soluzione pacifica. La posta in gioco è altissima, anche per l'Italia.

E non solo per gli interessi economici che vedono recitare in Medio Oriente e nel Nord Africa un ruolo di primo piano dall'Eni (che per ora non ha evacuato il personale dal giacimento iracheno di Zubair), ma anche perché la stabilità dell'area è la garanzia per non importare più migranti che petrolio.

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