Nessuno si fida di nessuno: altrimenti farebbero un altro mestiere. Ciò premesso, i rapporti tra le spie di paesi alleati funzionano come spesso i rapporti tra burocrazie: due canali, uno ufficiale, gravato di regole e procedure; e uno parallelo, informale, dove a contare sono soltanto i rapporti individuali. E qui, alla fine, la fiducia reciproca svolge un ruolo cruciale.
Infortuni come i due scontri che negli scorsi giorni hanno segnato i rapporti tra l'intelligence Usa e due servizi segreti alleati (prima gli israeliani, poi i britannici) in Italia fortunatamente non sono mai accaduti. Quando gli 007 di un paese amico hanno «soffiato» qualcosa ai nostri, il segreto è rimasto ben custodito: grazie anche alla compartimentazione rigida delle nostre strutture. La domanda piuttosto è: ci dicono tutto? Nonostante alcune incomprensioni del passato - legate alla nostra propensione a comprare in contanti la libertà dei nostri ostaggi qua e là per il mondo - e episodi grotteschi come il sequestro Abu Omar, di base il coordinamento funziona. «Anche se - spiega un buon conoscitore di questi mondi - i servizi non potranno mai collaborare pienamente come fanno le forze di polizia, per un motivo semplice: la polizia si occupa di reprimere reati, e i reati sono più o meno uguali dappertutto; i servizi di intelligence invece tutelano gli interessi della loro nazione, che non sempre coincide con gli interessi di tutti gli alleati». Anche per questo l'idea di un servizio di informazione europeo appare destinata a restare nei libri dei sogni.
In Italia opera una ridda di servizi stranieri, più o meno ufficialmente. In teoria, a gestire i rapporti con questo mare di barbe finte sono solo le direzioni di Aisi e Aise; per via di fatto anche i centri locali dialogano con assiduità. E anche le forze di polizia, che in teoria con i servizi stranieri non dovrebbero avere contati, spesso hanno con essi un buon feeling. In passato, per esempio, era possibile incrociare agenti del Mossad israeliano fare pratica nel poligono dei carabinieri milanesi in via Vincenzo Monti, e la Digos milanese ha ricevuto dalla sede locale dalla Cia hardware e software in quantità.
Ufficialmente, i rapporti sono buoni con tutti gli alleati. Ma è notorio che con alcuni andiamo più d'accordo: negli ultimi anni si sono stretti legami positivi con i francesi, con cui abbiamo da gestire molta parte dell'emergenza jihadista; non vanno male i contatti con MI6 britannico e Cia; decisamente più farraginoso l'interscambio con il Bnd tedesco, con cui pure avremo necessità di sbrigare diverse rogne: ma pesa una vecchia, reciproca diffidenza. Paradossalmente, sono più fluidi i contatti con servizi segreti di paesi che non fanno parte dell'Alleanza Atlantica, in particolare arabi: 007 egiziani e algerini hanno da sempre una loro presenza nella Capitale, e hanno dimostrato in passato una discreta affidabilità: se di affidabilità si può parlare, in un mondo dove i doppi e tripli giochi sono prassi costante. E infatti la divisione controspionaggio dell'Aise ha il suo bel daffare a tenere d'occhio le mosse in Italia non solo dei servizi «nemici» ma anche di quelli «amici».
Non è un rapporto a senso unico: riceviamo informazioni e a nostra volta ne trasmettiamo. Certo, per gli spioni stranieri non è facile comprendere i meccanismi della nostra intelligence, a partire dalla suddivisione tra Aisi e Aise; ma ci riconoscono una discreta capacità operativa e una rete di fonti significative.
La diffidenza nasce piuttosto dalla tradizione di dialogo tra Italia e mondo arabo, dalla nostra tendenza a non schierarci in prima fila nei conflitti. Di questo dialogo sotterraneo anche i servizi italiani sono stati in questi anni una parte essenziale. Ed è questo a tornare indigesto ad altri 007.
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