"Camice, cuffia, mascherina. E sei all'inferno"

Viaggio nell'ospedale sul lago d'Iseo che esplode. I malati restano in cortile per ore

"Camice, cuffia, mascherina. E sei all'inferno"

Lovere (Bergamo) «Indossi il camice, calzari, cuffia, occhiali, visiera, doppia mascherina, guanti. A questo punto, entri nell'inferno. Un inferno abitato da persone che non sono anonime. Sono tuoi parenti, amici di parenti, vicini di casa. E il dramma è doppio quando vedi la morte negli occhi di chi conosci e hai la consapevolezza che rappresenti l'unica e ultima speranza». È il racconto di un'infermiera dell'ospedale di Lovere, sul lago d'Iseo, a 50 chilometri da Bergamo e altrettanti da Brescia. Un ospedale di frontiera dove si muore tanto quanto nella martoriata Bergamo, ma lontano dagli occhi, dai media, dal sostegno di medici cubani o russi.

C'è una luce in questa bufera, le maschere da sub trasformate in respiratori grazie al colpo di genio del medico Renato Favero e dell'ingegnere bresciano Christian Fracassi, mentre la ditta Tecnohit (a 2 chilometri dall'ospedale) ne stampa le valvole in 3D: solito miracolo lombardo. Strumenti provvidenziali per una terapia subintensiva d'urgenza e per la prima accoglienza al pronto soccorso. Che a Lovere ormai gestisce il quadruplo dei pazienti previsti dalla struttura. «Da fine febbraio - continua l'infermiera - è un fiume in piena. Il pronto soccorso dovrebbe ospitare al massimo otto pazienti mentre si arriva a 30, stipati ovunque. Le ambulanze arrivano ogni 15 minuti, e rimangono in cortile per ore prima di poter avere accesso. E una volta qui, il paziente aspetta anche tre giorni per poter salire in reparto. È un'apocalisse. Lavoriamo dieci ore al giorno, ma non ci spaventa il carico di lavoro in sé, è la pressione psicologica a distruggerci. Al rientro a casa, una parte di te rimane in ospedale, ti chiedi se quella terapia funzionerà, se il paziente sopravviverà. La nostra caposala ha trascorso giorni senza rientrare a casa. È finita in burnout».

E ancora, «si opera al limite, è uno sforzo continuo, e poi la gente ti muore comunque fra le braccia, e senza vedere i propri cari. Si ripete quindi un triste copione, il medico che fa la telefonata a casa per comunicare il decesso e l'arrivo delle pompe funebri. Un ciclo di vita si chiude così, gelidamente. Lavoro in un reparto dove facciamo costantemente i conti con la morte, ma questa volta, con il Covid, è tutto diverso. Mi rincuora il fatto che siamo riusciti a procurare qualche ipad per le videochiamate con i parenti. E questo genera tanto sollevo».

L'ospedale di Lovere è al fronte, in prima linea, con un esercito sempre più sguarnito. Il 35 per cento del personale medico infermieristico è colpito da Covid-19. Ora si attinge alle cooperative. Per sopperire a carenze strutturali, come il sistema di ventilazione in un pronto soccorso che ha quadruplicato i numeri dell'accoglienza, il sindaco di Lovere, Alex Pennacchio, ha lanciato una campagna per raccogliere fondi. La comunità e in particolare gli imprenditori (tra i quali spicca proprio Lucchini) hanno risposto mettendo insieme 100mila euro, una quota importante per un ospedale da 99 posti letto, ora quasi tutti destinati a pazienti affetti da coronavirus.

Ma la stessa comunità lancia un grido d'allarme per la struttura che sta esplodendo, «è ben oltre i limiti. Arrivano autoambulanze da tutto il Sebino, Val Seriana e Camonica», anche perché è stato disposto che i due ospedali valligiani di Edolo e Esine non accolgano più alcuna ambulanza, «da dirottarsi in altra sede», come è scritto nella circolare. Intanto nell'ospedale di Lovere, racconta Pennacchio, «muoiono fra le 10 e le 15 persone al giorno, i defunti della nostra cittadina sono triplicati rispetto all'anno scorso.

Iniziano a scarseggiare le bare, le onoranze funebri sono allo stremo, le nostre salme viaggiano fuori regione. Dati i numeri, ho già individuato una chiesa che potrebbe accogliere altri feretri se la situazione si protraesse. Spero di non dover mettere in atto questo piano, però mi porto avanti».

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