Gli altri vendono programmi incartati nello zucchero filato di promesse mirabolanti. Loro nemmeno quelle. Il centrodestra sventola la flat tax, anche se l'asticella dell'aliquota va su e giù con una certa nonchalance; i grillini suonano il piffero del reddito di cittadinanza, incantando segmenti interi dell'elettorato; perfino i neofiti di Leu hanno pescato il loro jolly, scommettendo sulla cancellazione delle tasse universitarie. Tutti tranne loro. Il Pd, questo Pd a trazione renziana, non ha un prodotto vincente in vetrina e l'elettorato, sempre pronto a puntare il dito ma altrettanto veloce nel sognare a occhi aperti, coglie questa indecisione e si prepara a traslocare.
Tutte le analisi del voto di queste settimane sottolineano questo trend al ribasso: le dighe e le soglie di sbarramento sono saltate implacabilmente, una dopo l'altra. Pure il muro virtuale del 25 per cento è caduto e ora siamo intorno al 22-23 per cento. Un record negativo, dopo il tetto stellare del 40,8 per cento alle Europee.
«Siamo gente seria», ripete Renzi. Credibilità e sostenibilità, con una spolverata di vocabolario ambientalista. Low profile. Numeri modesti e senza la traiettoria dei fuochi d'artificio. Potrebbero essere le cifre di un partito con i piedi per terra, meno Pinocchio degli altri, ma le antenne dell'opinione pubblica catturano altri segnali: un balbettio nel ruolino di marcia, un'identità sfuocata, la rinuncia alla grande promessa, insomma la fine della corsa che aveva animato la prima, sfolgorante stagione renziana. Renzi che picconava le belle statuine della vecchia nomenklatura e intanto annunciava riforme a raffica, svolte e controsvolte, cambiamenti epocali. Qualcosa, va detto, è stato fatto, molto si è perso per strada, sappiamo come è andata a finire. Renzi si è allontanato riluttante dal Campo dei miracoli, quello dove gli zecchini d'oro crescevano in fretta, ma non ha saputo offrire una nuova narrazione. Il Nazareno ha partorito un nuovo premier che è l'antitesi del precedente: molto lavoro, poche parole, zero ostentazione. Il paradosso è che Paolo Gentiloni piace ma non trascina, almeno per ora, il Pd che resta avvitato al suo rifondatore.
Non c'è un programma forte e nemmeno una controprogrammazione, come nella tv di qualità. L'idea più seducente dovrebbe essere quella dei 240 euro di detrazione per i figli a carico. Troppo poco. C'è solo la rincorsa, il fiatone, le puntualizzazioni con il loro ragionieristico presagio di sconfitta. Cosi sulla sicurezza e sul nodo ustionante dell'immigrazione. Berlusconi e Salvini inaugurano la tolleranza zero con i clandestini e sparano cifre sui rimpatri di massa. Il Nazareno, che avrebbe potuto sfruttare la linea dura varata con successo da Minniti, corregge, aggiusta il tiro, segue il corso muscolare del ministro ma anche no. Troppe torsioni e alla fine quella nebbiolina che tutto avvolge e confonde. Così anche i meriti acquisiti sul campo svaniscono: se il marketing è debole e poco aggressivo i messaggi non arrivano. Giusti o sbagliati che siano.
L'opinione pubblica, abituata alla moneta sonante della semplificazione, sente rimbombare solo i continui litigi fra le varie anime sempre sul punto di esplodere. E non s'infervora più davanti ai rituali appelli all'unità dei padri fondatori. Soprattutto non scommette più sulla faccia usurata di un Renzi che ha perso il tocco di re Mida. I grillini paiono impermeabili alle crisi da loro stessi innescate, nel centrodestra il duello, a tratti feroce, sulla leadership prosegue un giorno sì e l'altro pure, ma il vento soffia sempre impetuoso.
Il Pd invece arretra e con la testa è già al 5 marzo e alla resa dei conti. Come se il risultato dell'election day atteso da un quinquennio riguardasse gli altri e non loro. Quelli che volevano rivoltare l'Italia e hanno perso prima ancora della battaglia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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