La convention milanese di Fratelli d'Italia voleva essere il modo per dare l'avvio di slancio alla campagna elettorale per le politiche del prossimo anno. L'idea era più o meno quella di mettere Giorgia Meloni sul piedistallo del candidato premier e soprattutto del «campione» del centrodestra. E infatti al centro della kermesse meneghina altro non c'è stato che l'idea di svecchiare il pur giovane partito meloniano, sfrondandolo dai cascami nostalgici, e di ancorarlo saldamente alla società civile di oggi.
Gli analisti politici, però, ancora si chiedono se l'operazione di fare di Fratelli d'Italia il partito conservatore italiano sia riuscita o meno. Dubbi, e non certo vaghi, albergano negli animi dei suoi alleati. Primo perché la costante crescita di consensi della Meloni è dovuta principalmente al suo emanciparsi dalla catena della responsabilità nei confronti del Paese cui Mattarella, tramite Draghi, ha chiamato tutti i partiti. E poi perché stentano a decollare gli accordi sulle candidature per le amministrative (ormai alle porte).
Dal palco milanese Giorgia Meloni chiude la sua kermesse con uno slogan senza appello: «Non ci svendiamo e non vogliamo porte girevoli, o si vince o si perde». Riferimento, quello delle porte girevoli, che non piace agli alleati impegnati da oltre un anno a mediare le esigenze del popolo di centrodestra nel governo di unità nazionale di Draghi. A più riprese sia Antonio Tajani (FI) che Matteo Salvini (Lega) hanno replicato «Noi abbiamo anteposto in questo momento l'interesse nazionale a quello del partito». I timori, però, non albergano soltanto negli animi dei leghisti. Anche tra le file di Fratelli d'Italia c'è tensione. Temono che alle prossime politiche si realizzi quella già più volte annunciata federazione tra Forza Italia e Lega. Un «matrimonio» d'interesse, questo, che potrebbe portare al doppio risultato (con l'attuale legge elettorale) di garantire a molti azzurri l'ingresso in Parlamento e al leader leghista l'approdo a Palazzo Chigi nel caso la coalizione risulti vincente.
D'altronde il leader leghista ieri mattina a Monza commentava tra i denti quel termine «imbucato» con cui alcuni dirigenti di Fratelli d'Italia avevano apostrofato per la sua possibile comparsa alla convention milanese. «Non mi vado a imbucare - ha replicato stizzito Salvini -, a questo punto quando vorranno ci vedremo». Sottolineando che «è un errore continuare a ripetere a giorni alterni che si potrebbe andare al governo da soli». Il riferimento è proprio alla prova muscolare della Meloni dal palco milanese. «Il centrodestra andrà al governo solo facendo un salto di maturità, ora e non a ridosso delle elezioni - preconizza l'azzurro Giorgio Mulè -, e presentandosi non solo unito ma con idee chiare e condivise sui principali temi come lavoro e fisco».
La compattezza della coalizione però sembra venire meno se si guarda alle prossime amministrative. Spicca il caso Sicilia. Con Lega e Forza Italia in seria difficoltà sull'ipotesi di appoggiare la ricandidatura di Musumeci alla guida della Regione. Salvini si dice pronto a fare di tutto per venire incontro ai desiderata della Meloni ma, avverte, «se i 3/4 della coalizione dicono di no alla sua ricandidatura un problema c'è».
Mentre sul campo prettamente palermitano resiste il braccio di ferro sui nomi. «Le scelte vanno prese qui in Sicilia, non a Roma», dice il leghista Nino Minardo mentre l'azzurro Gianfranco Micciché annuncia il raggiungimento di un accordo con la lista di Totò Lentini di Alleanza per Palermo».
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