Un milione e quattrocento mila mascherine al giorno dalla filiera della moda. L'azienda di pannolini in provincia di Varese che trasforma i suoi pannolini in strumenti di protezione. Le aziende tessili che riconvertono la produzione. Così, il made in Italy si schiera compatto per affrontare la crisi, con uno slancio ammirevole. Resta però il problema di chi l'emergenza la vive ogni minuto: gli operatori sanitari. Lo dice ora anche l'Oms: «La priorità va a chi lavora per curare i malati. Le persone sane lascino le protezioni a chi ne ha bisogno». E quindi: servono mascherine professionali, ma non ce ne sono per tutti. Moltissime sono ferme alla dogana. E il perché è incredibilmente scritto nero su bianco nel decreto del 17 marzo del governo, seguito poi dalla direttiva del commissario straordinario Domenico Arcuri.
In pratica: le norme che liberalizzano la produzione degli strumenti di protezione, prevedono alcuni paletti. L'accusa arriva dalle aziende italiane che importano i dispositivi ospedalieri, per le quali «si sta giocando con la salute di medici e infermieri». Tanto che, e qui è il fatto grave, mascherine destinate al nostro Paese finiscono all'estero. «Non possiamo far fallire le nostre realtà per colpa di regole assurde».
Queste, per esempio: il decreto consente alle aziende, grazie a finanziamenti a fondo perduto, di poter entrare nel campo della produzione di mascherine. Ma per fare in fretta viene consentita l'autocertificazione riguardo al marchio CE e alle altre norme di sicurezza di solito obbligatorie. Si manda il modulo all'Istituto Superiore di Sanità, il quale dovrebbe controllare tutto in tre giorni. Intanto però le mascherine già pronte, vista l'urgenza, vengono già distribuite.
Così l'Associazione Nazionale per la Prevenzione, in un comunicato, fa notare che i lavoratori che ora dovrebbero entrare nel sistema produttivo sono senza le giuste e vitali protezioni: «Lo Stato ha cominciato a bloccare tutte le forniture di mascherine ffp2 ed ffp3. E ora ha fermato persino le semi maschere professionali a filtri, dirottate in blocco al settore ospedaliero e alla Protezione civile, necessarie invece a tutti i lavoratori che sono a contatto con rischi certi come polveri, amianto, fumi e gas. Si sta verificando la stessa cosa già accaduta con i medici: quella di mandarli al fronte senza armi».
Per risolvere il problema servirebbe allora importarle, perché le aziende che fabbricano materiale sanitario in Italia sono poche e coprono più o meno il 10 per cento dell'attuale necessità. Però, anche in questo caso, il decreto combina un pasticcio, come rilevano appunto le società che distribuiscono materiale certificato: «Prima della crisi una mascherina ospedaliera ordinata in Cina costava circa 15 centesimi. Adesso per farla arrivare in Italia ce ne vogliono più o meno 60, anche se sono state eliminate certe imposte. Sapete quanto ci rimborserà il governo dopo averle requisite? La bellezza di 16 cent... Risultato: volevamo dare una mano all'Italia, le avremmo chiesto massimo 0,70, giusto per pagare le spese visto che i cinesi ora chiedono soldi cash. Invece, per esempio, una delle nostre aziende aveva una partita pronta da 570mila pezzi e le ha dirottati in Polonia. Lì li hanno pagati 1 euro e 10».
Dunque: con un mese di ritardo rispetto all'inizio della crisi, ora la Protezione Civile è riuscita a distribuire i primi 10 milioni dispositivi agli ospedali, una scorta comunque per due-tre giorni.
I tentennamenti e poi l'imbuto del decreto hanno però impedito di intervenire per tempo. E il risultato, secondo gli importatori, è agghiacciante: «Siamo il Paese con più vittime tra medici e infermieri. Bastavano pochi milioni di euro spesi nel momento giusto e questo non sarebbe successo».
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