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Il caso Feltri e quei giornali complici di un attacco illiberale

Come se non fosse successo nulla. Come se non fosse una notizia. Nemmeno una breve, come si dice in gergo.

Il caso Feltri e quei giornali complici di un attacco illiberale

Come se non fosse successo nulla. Come se non fosse una notizia. Nemmeno una breve, come si dice in gergo. Il giornale unico del politicamente corretto ha ignorato le dimissioni dall'Ordine dei Giornalisti di Vittorio Feltri, costretto a lasciare l'associazione dopo anni di persecuzioni e sotto la minaccia di non poter più scrivere. È il silenzio dei (sedicenti) innocenti, che in realtà con il loro mutismo diventano chiassosi colpevoli. Complici del tentativo sciagurato e illiberale di tappare la bocca e spaccare la macchina per scrivere a un loro collega. Ed è proprio il silenziatore imposto dalla categoria che colpisce ancor più del bavaglio sventolato dall'Ordine. Riporta alla memoria quello che accadde a Indro Montanelli nel 1977: venne gambizzato dai Brigatisti e il Corriere, il giornale che lo aveva ospitato per decenni prima che fondasse il quotidiano che avete tra le mani, non ebbe il coraggio di mettere il suo nome in prima pagina. «I giornalisti nuovo bersaglio della violenza. Le Brigate Rosse rivendicano gli attentati», titolò Piero Ottone, confinando l'identità di Montanelli alla fine di un sommario. Situazioni diverse, stesso tanfo di vigliaccheria.
Questa volta tutti i giornaloni in coro hanno taciuto il caso Feltri. Silenzio totale della casta stampata. Salvo poi, al netto dell'ipocrisia e del paraculismo, dare la notizia nelle proprie edizioni on line (vedi la Repubblica e il Corriere della Sera). Perché Feltri è una «notizia», fa clic e quindi soldi. Non te lo porti nel salotto buono del giornale di carta, ma lo getti nel tinello del web ad acchiappare lettori. Perché Feltri ha un peccato originale: non è di sinistra e dice tutto quello che gli passa per la testa, infischiandosene del galateo radical chic. Quello che scrive può piacere o non piacere, ma la sua libertà, che è anche la nostra, è difesa dall'articolo 21 della Costituzione. A meno che la «Costituzione più bella del mondo» non valga solo per i giornalisti e i cittadini di sinistra.
Non è necessario essere un fan del direttore di Libero per capire che se un giornalista, per poter continuare a fare il giornalista, si deve dimettere da giornalista (sembra una barzelletta) significa che in Italia abbiamo un problema gigantesco di libertà di espressione. La battaglia di Feltri non tira in ballo solo noi scribacchini, ma tutti coloro i quali non vogliono genuflettersi alla dittatura del politicamente corretto.

È solo una battaglia di libertà, valore evidentemente non molto caro alla categoria.

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