La causa più lunga d'Italia: 45 anni per una sentenza

Un processo civile contro lo Stato iniziato nel 1973 è finito solo ora. E i ricorrenti sono quasi tutti morti

La causa più lunga d'Italia: 45 anni per una sentenza

Nel Paese dei record negativi che impantanano la vita degli italiani nei tribunali ne è appena stato abbattuto un altro: se 500 giorni è il tempo medio per un verdetto civile in primo grado, a un gruppo di cittadini c'è voluto quasi mezzo secolo per arrivare a una sentenza di appello in una causa contro lo Stato. E per vincerla.

Nel frattempo la Storia è andata avanti facendosi inesorabilmente beffa di chi, quella causa, l'aveva intentata nei primi anni settanta: molti dei ricorrenti sono passati a miglior vita e chi è sopravvissuto alla giustizia lumaca che ci condanna a fanalino di coda in Europa, oggi rivendica la vittoria in qualche modo anche per chi non c'è più. Anche se potrebbe non essere ancora finita, visto che il fascicolo definito dagli stessi legali che l'hanno seguito, «il più vecchio d'Italia», potrebbe andare al terzo round in Cassazione.

Era il 1973 quando i titolari di alcuni camping sul litorale veneziano di Cavallino firmarono l'impugnativa contro quello che ai loro occhi appariva un esproprio: tutta colpa di un muro di cemento costruito nel 1966 dopo i danni di una violenta mareggiata, a un centinaio di metri dal mare. Un'opera eretta all'interno delle proprietà e pensata a protezione delle strutture. Mai i proprietari avrebbero pensato che quella diga diventasse l'oggetto di un braccio di ferro con il ministero dell'Economia che sarebbe sopravvissuto alle loro stesse esistenze.

L'incubo giudiziario invece si materializza quando, un anno dopo quella costruzione, la capitaneria di Porto avvia la procedura per demanializzare il tratto spiaggia dal mare fino a quel muro, sottraendo di fatto ai privati decine di migliaia di metri quadri, per una lunghezza di 5 chilometri di litorale. Da qui il ricorso dei cittadini e le successive battaglie in tribunale, che cessano solo 19 anni dopo.

Nonostante nel 1987 ci siano finalmente tutti gli elementi per decidere, è il 1992 quando esce il verdetto di primo grado che dà ragione allo Stato. Il giudice si prende cinque anni per emettere la sentenza, e per confermare che quel terreno è demanio marittimo. Che la procedura è legittima. Così comincia la seconda impugnativa, quella che si trascinerà fino a oggi per concludersi con il ribaltamento in corte d'appello della decisione dei giudici: «I fondi di proprietà degli appellanti ubicati nella fascia di arenile compresa tra la battigia e la diga in cemento armato non appartengono al demanio marittimo».

Uno dei legali che ha seguito il processo nella seconda fase, Flavio Tagliapietra, sorride ricordando che aveva 4 anni nel 1973, quando è partito il ricorso. Spiega che la tempistica «inusuale» è stata ulteriormente dilatata in appello per via di una lunga trattativa tra privati e ministero per giungere a una soluzione bonaria, a una transazione che mettesse d'accordo le parti poi naufragata.

Cosa resta oggi di questa guerra? I danni che i privati sostengono di aver subito e che saranno probabilmente oggetto di una richiesta di risarcimento. Quando quei terreni sono stati demanializzati, i gestori dei camping si sono ritrovati a pagare un canone al Comune per la concessione di quel tratto di arenile. Ma questa è un'altra storia.

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