"In cella senza prove e poi assolto Ora sono volontario per i poveri"

L'ex numero uno di Finmeccanica, le inchieste sulle tangenti indiane e quella sui soldi alla Lega finite in un nulla di fatto: "Con me hanno distrutto la reputazione dell'Italia"

L'amministratore delegato di Finmeccanica Giuseppe Orsi
L'amministratore delegato di Finmeccanica Giuseppe Orsi

Milano - La pietra tombale sulle voci maligne e i sussurri l'ha messa infine il gip di Busto Arsizio: «L'ipotesi di un finanziamento illecito alla Lega non ha trovato alcun riscontro investigativo». Peccato che ci siano voluti quattro anni, le dimissioni da amministratore delegato e presidente di Finmeccanica, in pratica la più grande industria italiana, un danno d'immagine per il sistema Italia incalcolabile, decine di titoli di giornale che ricamavano su tutto il ricamabile. Non si è arrivati nemmeno al dibattimento. «Appunto. La stessa Procura, dopo anni e anni di indagini, ha chiesto e ottenuto l'archiviazione perché su questa storia dei 10 milioni che avrei girato alla Lega, tirandoli fuori come una costola da un'altrettanto inesistente tangente indiana, non c'era nulla di nulla».

Giuseppe Orsi è seduto al tavolo in un' anonima palazzina della periferia milanese. Sotto c'è «Ruben», il ristorante per i nuovi poveri voluto dall'ex patron dell'Inter Ernesto Pellegrini. La cena costa 1 euro. Orsi in pratica è l'amministratore delegato di un ambizioso progetto che mira a dare pane ma anche occupazione ai tanti in difficoltà. Lui, però preferisce un'altra qualifica: «Sono il primo volontario. Sa, ho ancora sulle spalle una condanna a 2 anni per false fatture. Confido che cada in appello. Intanto, per correttezza, non voglio, pur potendolo fare, ricoprire alcun incarico societario. Però». Giuseppe Orsi, classe 1945, allarga le braccia: «Vede, non è mio costume alimentare polemiche, ma qualche considerazione vorrei farla».

Prego...

«Sono stato assolto per la famigerata mazzetta al numero uno dell'aviazione indiana e ora hanno riconosciuto la mia estraneità a qualunque attività illegale sul versante Lega. Dicevano persino che l'Indian connection avrebbe rappresentato per la Lega quel che Monte dei Paschi aveva scoperchiato per il Pd. Sono stato 83 giorni in cella a Busto Arsizio senza prove. C'erano solo le calunnie di un ex dirigente, Lorenzo Borgogni, che ho querelato. È stato lui a raccogliere le malevolenze di alcune persone interne all'azienda, a soffiare sul fuoco costruendo l'accusa».

Una contestazione doppia.

«Sì, io avrei allungato un obolo alla Lega. E avrei creato una provvista in nero sul fronte indiano dove avrei corrotto il maresciallo Sashi Tyagi, capo di stato maggiore dell'Indian Air Force».

Ma perché Borgogni l'avrebbe messa in mezzo?

«Quando nel 2011 sono arrivato sul ponte di comando di Finmeccanica, con qualcosa come 70mila dipendenti, io ho iniziato una profonda riforma della società. Avevo in mente il modello della public company anglosassone. Rapporti col potere politico ridotti all'indispensabile, chiusura di alcune delle troppe sedi romane non operative, avanti con la meritocrazia e via i dirigenti abituati solo a tessere trame nel palazzo».

Gliel'hanno giurata?

«Qualcuno non si è arreso al cambiamento. Il problema è quel che è successo dopo».

A cosa allude?

«L'indagine è partita da Napoli, da Woodcock, poi è stata trasferita a Busto. Bene, dopo mesi e mesi di inchieste, una bella mattina di febbraio del 2013 vengo arrestato. Scusi, ma perché prima non mi hanno almeno interrogato? Tu puoi considerare che il numero uno di Finmeccanica sia un corruttore internazionale, ma dovresti porti il problema del danno al Paese. Invece, mi hanno messo in cella con una sfilza di accuse terrificanti, dalla corruzione internazionale al riciclaggio, che poi sono cadute. E il governo non ha mosso un dito».

Monti?

«Solo silenzio. Altrove, vedi la Gran Bretagna, il Paese fa quadrato intorno alle sue industrie strategicamente rilevanti. Da noi un colosso come Finmeccanica, con aziende importantissime come Agusta Westland e Alenia, è stato letteralmente abbandonato al suo destino. Nessuno ha provato a circoscrivere l'incendio».

Quale incendio?

«L'ipotesi era che Agusta, da cui io provenivo e di cui ero stato amministratore delegato, avesse versato nel 2005 una tangente al maresciallo Tyagi per piazzare 12 elicotteri AW 101. Un contratto da 700 milioni che ora naturalmente è sospeso. Gli inglesi mettono il segreto di Stato e chiudono la partita. Da noi tutte le illazioni sono lecite. Ma così si distrugge l'Italia e la sua reputazione».

Non c'era la tangente?

«Non è mai stata quantificata nemmeno la fantomatica cifra, anche se si sosteneva che avrei versato fino a 51 milioni di euro. Al dibattimento abbiamo dimostrato che il processo decisionale indiano era precedente e che Tyagi aveva solo ratificato una scelta fatta da altri, con un passaggio tecnico molto importante: l'abbassamento della quota di volo degli elicotteri richiesti dall'India, portandola, diciamo così, ad un'altezza adatta ai nostri AW 101. Del resto Guido Haschke, il presunto mediatore di questa storia, ha negato di aver compiuto alcuna attività corruttiva. Certo, Haschke era storicamente in società con tre fratelli a loro volta cugini di questo signore. Capisco la suggestione, ma questo può essere un indizio. E invece siamo persino andati in India a dare improbabili lezioni di moralità».

Tipo?

«Messaggi di questo tenore: “Attenzione cari amici indiani. Voi avete un capo di stato maggiore corrotto. Le prove forse ci sono o forse no, ma intanto ve lo diciamo”. Secondo lei come l'hanno presa? I giornali hanno cominciato a scrivere che li accusavamo di essere un Paese di ladri. E a puntare il dito contro un tizio che lì è un semidio. Gli stessi giornali sostenevano che noi andiamo a sparare contro i loro marinai».

Ah, i marò.

«Mi sono sempre chiesto se ci sia un nesso fra le due vicende».

Il caso Tyagi può aver complicato la già contorta vicenda?

«Un collegamento diretto secondo me non c'è. E però il clima è quello: l'India si è sentita sotto pressione su due fronti, con una perfetta sovrapposizione temporale».

Ora è finita.

«No, ci sarà l'appello, c'è ancora quella macchia delle false fatture. E poi, non creda: il disastro, in termini economici, contrattuali, di immagine, è incalcolabile. Vada lei a spiegare al Pentagono o all'amministratore delegato della Boeing che la tangente non c'era, che Finmeccanica si è comportata bene, che il suo amministratore delegato non è un bandito. Se entri in una black list, se sei stato depennato, non è facile rientrare nel gioco. E quando ero in cella, qualcuno si chiedeva: “Possibile che Orsi non esca nemmeno con la cauzione?”».

La cauzione?

«Sì, non è che negli Usa conoscano a memoria come funziona il nostro sistema. Pochi sanno che da noi questo istituto non c'è».

Oggi?

«Ruben è un'esperienza importante. Diamo da mangiare alle famiglie bisognose. Senza avvilire la dignità di chi viene qua. Per questo quell'euro è importante.

E presto passeremo alla fase due: il lavoro. A Milano non mancano tanto il cibo e i sussidi quanto l'opportunità di un lavoro che restituisca dignità. Manca il lavoro e manca ancora di più la cultura del lavoro. È ora di affrontare questa emergenza».

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