Chissà cos'altro era necessario perché un giudice si convincesse della sua pericolosità. Bilel Chiahoui, tunisino, fu catturato nell'agosto dell'anno scorso al termine di una caccia all'uomo frenetica, che impegnò cento carabinieri in una corsa contro il tempo, dopo che sulla sua pagina Facebook aveva scritto «voglio morire da martire», e insieme alla data di nascita aveva messo quella di morte: il giorno stesso, 11 agosto 2016, a Pisa. Per bloccare l'incubo di un attentato suicida l'intera Toscana vene passata al setaccio. Chiahoui venne catturato ed espulso.
Eppure meno di un anno dopo un giudice del tribunale di Torino ha ritenuto che Bilel non fosse un terrorista, un pericolo per la società civile, e ha rifiutato gli ordini di cattura chiesti dal pm torinese Andrea Padalino contro di lui e altri quattro estremisti islamici della stessa cellula: tutti finti studenti, arrivati in Italia sostenendo di iscriversi alla università di Torino dove non hanno mai messo piede. Ora, accogliendo il ricorso della Procura, il tribunale del Riesame ha ordinato l'arresto del quintetto, ma - come vuole la legge - il provvedimento resta privo di efficacia, in attesa dell'eventuale ricorso in Cassazione. E così si produce la situazione surreale che vede tre terroristi tranquilli a casa loro, dove si trovano agli arresti domiciliari per lo spaccio di droga con cui si mantenevano mentre progettavano la jihad, senza che li si possa arrestare; mentre Chiahoui e un altro espulso sono almeno a distanza di sicurezza dal territorio italiano.
Eppure sulla pericolosità della cellula era difficile avere dubbi, da ben prima che Chiahoui annunciasse la sua trasformazione in kamikaze. Dello stesso gruppetto facevano parte anche Wael Labidi e Khaled Zeddini, partiti nel 2015 dall'Italia per la Siria per unirsi all'Isis e caduti combattendo per lo Stato islamico. Chiahoui e gli altri - pedinati e intercettati - celebrano gli amici come martiri, «che Dio lo abbia in gloria», e portano il cuscus in moschea per il banchetto funebre in loro onore. D'altronde uno del quintetto, Bilel Mejiri, era stato fotografato in Tunisia tra la folla che applaudiva un comizio di Abu Ayadi, il leader del gruppo terrorista di Ansar al-Sharia ucciso poi dai bombardamenti americani nelle terre del Califfato; un altro, Marwen Ben Saad, viene registrato dal Ros dei carabinieri mentre dice: «Se andassimo a farci martiri in Siria sarebbe meglio», e poi ancora «Io li colpisco, sparo, giuro! Li distruggo, sì, è facile, io farei un lavoro pulito»; e Chiahoui pubblicava su Facebook le foto dell'amico morto combattendo: «Uomo in un tempo di pochi uomini. Wael, ti adoro in Allah».
Eppure, il 21 giugno scorso il giudice preliminare Stefano Vitelli (a cui discolpa si può dire soltanto che è un garantista recidivo, essendo lo stesso giudice che assolse Alberto Stasi dall'accusa di avere ucciso la fidanzata) rifiuta di emettere le ordinanze di custodia, lasciando i cinque a piede libero. Secondo il giudice, i proclami pro Isis «rientravano nell'esercizio del diritto inviolabile alla libera manifestazione del pensiero», mentre gli annunci di Chihahoui non dimostravano nulla, visto che non aveva giurato fedeltà all'Isis ne risultava «un organico arruolamento nella suindicata organizzazione terroristica».
Ora il Tribunale del riesame ribalta tutto, riconoscendo quello che tutti sanno: che le bande islamiche legate all'Isis non sono una organizzazione rigida dove si entra con tessera e giuramento, ma «strutture caratterizzate da estrema flessibilità
interna» i cui «soggetti possono essere arruolati anche di volta in volta con una sorta di adesione progressiva», «anche mediante adesione telematica». Ordine di cattura per tutti, dunque: ma per ora è come se non esistesse.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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