
Omaggio sobrio, polemica infuocata. Due anni dopo la strage nella redazione del settimanale francese Charlie Hebdo, Parigi ricorda il primo colpo dell'Isis alla Grandeur. Ma sotto i fiori, si celano i cannoni di una disputa interna alla redazione, fatta di epurazioni e censure. Il direttore Riss, Marika Bret e Eric Portheault, tre membri del giornale stabilitosi ormai in un luogo tenuto segreto al pubblico, con guardie armate e giubbetti antiproiettile sulle scrivanie, hanno deposto una gerbera davanti alla lapide in memoria degli undici colleghi uccisi il 7 gennaio 2015. Nessuno ha preso la parola, nonostante la presenza del ministro dell'Interno Bruno Le Roux e del sindaco Anne Hidalgo. Solo un minuto di silenzio.
Un omaggio discreto per non urtare la sensibilità degli altri giornalisti e collaboratori del settimanale. Molti dei quali hanno abbandonato Charlie, per scelta o perché costretti: non dalle minacce terroristiche, ma dai crescenti disaccordi sulla linea editoriale impressa dal direttore Riss.
Nel giorno della commemorazione lascia Zineb El Rhazoui con un durissimo j'accuse: ormai Charlie segue la linea dettata dai fondamentalisti, ovvero «non disegnare Maometto». «Charlie è morto il 7 gennaio 2015». A ottobre, il settimanale aveva quasi licenziato la 35enne franco-marocchina per «condotta professionale grave». Non adempie agli obblighi contrattuali. Cioè: non voleva essere censurata. Zineb, superstite della vecchia redazione perché si trovava in Marocco, si è vista assegnare sei agenti di scorta in quanto cronista più minacciata di Francia per un libro sul fascismo islamico. Nulla da Charlie e poca libertà, dove in questi mesi ha sollevato anche il tema dei soldi. Vero nodo che sta dilaniando il settimanale: «Con tutti i finanziamenti ricevuti, l'urgenza è davvero quella di risparmiare sul mio stipendio?», scriveva a Le Monde.
La direzione ha rifiutato ogni confronto in merito. Giornalisti e vignettisti in lotta per la sopravvivenza personale e professionale: contro l'Isis (per le minacce); e per la libertà d'espressione senza censure preventive o salari al ribasso. Le donazioni di mecenati, istituzioni, privati, fanno parlare di circa 30 milioni di euro di guadagni considerando le vendite post-attentato. Ma Charlie Hebdo resta in mano per il 40% ai genitori di Charb, l'ex direttore ucciso dai terroristi, per il 40% al neo-direttore Riss e per il 20% al direttore finanziario Eric Portheault. Della rifondazione basata sulla ripartizione «egualitaria» delle azioni tra i dipendenti non sembra esserci più traccia. I frondisti scrivono su altri giornali. Le Monde in primis. Lontano dal boom di 260mila abbonamenti, è stabile a 50mila. Lascia anche Laurent Léger, che ammette: avremmo dovuto smettere «dopo il numero dei superstiti», quello che vendette 8 milioni di copie nel 2015.
E se Charlie è sbarcato anche in Germania, in Francia viene nascosto nelle edicole almeno quanto la sua redazione. «Nel 2017 dovremmo forse tornare ad essere più offensivi si giustifica il direttore Il 2015 è stato l'anno della sopravvivenza, il 2016 quello della stabilizzazione».
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