Quelli che resistono sempre: le toghe boicottano le riforme

Il fortino di Milano boccia le misure del governo. L'avvocato generale: "Preoccupanti sintomi di irragionevolezza". Il viceministro Costa: perché non dicono cosa fanno loro?

Il presidente della Corte d'appello di Milano Giovanni Canzio
Il presidente della Corte d'appello di Milano Giovanni Canzio

L'applausometro è tutto dalla sua parte: come lo fu a suo tempo per i suoi predecessori, Francesco Saverio Borrelli e Manlio Minale. Lei è Laura Bertolè Viale, avvocato generale, oggi massimo rappresentante della pubblica accusa a Milano. Che, nel solco della tradizione, coglie l'occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario per sparare ad alzo zero sul governo. L'unica differenza, dai tempi di Borrelli e Minale, è che stavolta al governo non c'è più Silvio Berlusconi. Ma poco cambia. Delle misure varate da Matteo Renzi sul fronte della giustizia, per la Bertolè non se ne salva nessuna: dal falso in bilancio alla prescrizione, dai reati di corruzione a quelli contro l'ambiente, fino ovviamente al peccato più grave del governo, la norma sui reati fiscali che avrebbe salvato Berlusconi, tutto ricade dentro al suo giudizio: «Preoccupanti sintomi di irragionevolezza». Siamo lontani - va detto - dalla vis retorica del «resistere, resistere, resistere» di Borrelli. Ma la sostanza non cambia: come dicevano le giubbe azzurre degli indiani, l'unica riforma buona è una riforma morta? E la reazione dei giudici assiepati in sala è un'ovazione che sembra non finire mai. Come quando questo era un palazzo compatto, e non attraversato da divisioni e veleni: ma d'altronde ormai il «caso Milano» è destinato a chiudersi con la vittoria di Edmondo Bruti Liberati, e il suo grande accusatore Alfredo Robledo è ieri l'unico assente in aula magna.

Enrico Costa, viceministro della Giustizia che è a Milano a rappresentare il governo nelle terre degli infedeli, prende l'attacco della Bertolè quasi con filosofia: «Io sono venuto qui a spiegare cosa sta facendo il governo, mi aspettavo che anche gli altri intervenuti si preoccupassero di dire cosa fanno loro». Noi non diamo pagelle ma non vorremmo neanche riceverne, sembra dire Costa. D'altronde, gli dicono, questo palazzo di giustizia la polemica con la politica sembra averla nel Dna? «Evidentemente sì, bastava sentire l'applauso».

Più ancora esplicito Giacomo Caliendo, senatore di Forza Italia, ma fino a qualche anno fa collega di procura generale della Bertolè: «Tutti abbiamo il diritto di avere una opinione ma non è questa la sede per fare politica». A colpire è anche la oggettiva differenza di toni tra la dottoressa e il padrone di casa, il presidente della Corte d'appello Giovanni Canzio. Che non lesina critiche alla politica, soprattutto in temi di giustizia penale, quando dice che è stato «neutralizzato» il diritto penale delle società, rendendo difficile il controllo dei crimini finanziari. Ma almeno Canzio non rinuncia a mettere in luce anche le colpe dei magistrati, come quando dice che lo «sconcerto» dell'opinione pubblica per le assoluzioni clamorose come quelle di Berlusconi, del caso Cucchi o del processo Eternit è figlio anche dei magistrati che parlano con i giornalisti, «gli organi dell'accusa o i giudici di merito nella fase dell'inchiesta o del dibattimento decidono di intessere un dialogo diretto con i mass media o con il potere politico», ed a quel punto i cittadini non ci capiscono più niente.

E Canzio ne ha anche per i magistrati della procura di Palermo, quelli della trattativa Stato-Mafia, che hanno voluto a tutti i costi interrogare Giorgio Napolitano: «Questa dura prova

si poteva risparmiare al Capo dello Stato, alla magistratura stessa e alla Repubblica italiana». La frase, scritta nella relazione, poi viene saltata da Canzio, «per brevità», nel discorso. Ma intanto è lì, nero su bianco.

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