M ettiamola così: il migliore ristorante al mondo si trova alle porte dell'Italia e ha uno chef di chiare origini italiane, Mauro Colagreco. Che però di passaporto è argentino. È il premio di consolazione di un'edizione del Fifty Best - la classifica mondiale dei ristoranti che di italiano ha i main sponsor, San Pellegrino e Panna - piuttosto deludente per il made in Italy della tavola, che l'anno scorso gioiva per il primato di Massimo Bottura dell'Osteria Francescana di Modena, che aveva bissato il successo del 2016. Va detto che non ha aiutato il fatto che per decisione dei giurati del prestigioso premio, l'Oscar mondiale della forchetta, da quest'anno tutti coloro abbiano vinto il premio in passato sono fuori classifica, confinati in una sorta di Hall of Fame (leggetelo in inglese e non all'italiana, please) che serve a metterli al riparo dall'onta dell'inevitabile declino. E che quindi non potevamo difendere il titolo iridato, ancorché ufficioso. Però gli altri chef, quelli in competizione, non se la sono cavata bene. Per niente. Enrico Crippa di Piazza Duomo ad Alba, che chi scrive considera forse il migliore di tutti in Italia, è crollato dal 16esimo al 29esimo posto e nemmeno può mettersi le mani tra i capelli, essendo magnificamente pelato. Massimiliano Alajmo delle Calandre di Rubano, dalle parti di Padova, si è inabissato dalla 23esima al 31esima casella. Addirittura Niko Romito del ristorante Reale a Castel di Sangro e più meridionale dei tristellati italiani, è uscito dalla Fifty Best, dove l'anno scorso era comodo in posizione 36, per finire 51esimo, primo degli «altri».
Detto che queste classifiche sono decisamente soggettive, perché la cucina non è come lo sport, non c'è un cronometro o un punteggio a definire le graduatorie, e nemmeno una Var a ribaltare eventuali errori, non è comunque un bel momento per l'Italia della tavola, che vede tutti i suoi emergenti sommergersi un po' e deve forse interrogarsi su un movimento un po' in crisi davanti alla prepotenza della cucina ispanoablante, che domina la Fifty best piazzando in un modo o in un altro, sei chef nella top ten. oltre a Colagreco, l'argentino di Mentone e al suo Mirazur, che nel 2018 era terzo dietro Bottura e dietro al Celler de Can Roca di Girona, dei fratelli Roca, ci somo tre ristroranti spagnoli, l'Asador Etxebarri di Atxondo al terzo posto (chef Victor Arguinzoniz), il Mugaritz di Barcellona al settimo (chef Andoni Luis Aduriz) e al nono Disfrutar a Barcellona, del trio formato da Oriol Castro, Mateu Casanas ed Eduard Xatruch; e poi ci sono due esponenti della ormai consolidata cucina peruviana: Virgilio Martinez del Central di Lima a sesto posto e Mitsuharu Tsumura di Maido a Lima, esponente della incredibilmente riuscita fusion nippoperuviana. Concludono la lista due ristoranti di Copenaghen - il mitico Noma di René Redzepi nella nuova sede sull'isola di Refshalevej al secondo posto e Geranium di Rasmus Kofoed al quinto -il tailandese Gaggan di Gagan Anad al quarto e il parigino Arpège di Alain Passard all'ottavo.
Insomma, la cucina latina va per la maggiore, ma quella italiana segna il passo scomparendo dalle prime venticinque posizioni.
E va bene che una delle grandi primesse della cucina italiana, Riccardo Camanini di Lido 84 a Gardone Riviera porta a casa il premio The One in Watch come chef da tenere d'occhio (e lui ama ancora definire il suo locale «un bel ristorantino». Ma forse dobbiamo alzare lo sguardo e smetterla di considerarci sempre i migliori a prescindere. Anche se poi, a guardare bene la classifica, mancano nei primi dieci anche New York (e tutti gli States) e Londra.
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