Chi sta al governo perde voti

La grande e ovvia verità di questi ultimi anni, ma forse anche decenni, è che il potere logora chi ce l'ha, diversamente dall'età di Andreotti, cesellatore di questo aforisma

Chi sta al governo perde voti

La grande e ovvia verità di questi ultimi anni, ma forse anche decenni, è che il potere logora chi ce l'ha, diversamente dall'età di Andreotti, cesellatore di questo aforisma. Se stai al governo, perdi voti, e se proprio ti va male, poi, perdi anche il potere: una regola a cui non è scampato nessuno, da Trump a Macron, a Boris Johnson e, alla fine, pure Angela Merkel. E a cui non sono scampati i 5 stelle, il Pd di Renzi e quello di Letta, Forza Italia e, ovviamente, anche la Lega di Matteo Salvini. Il quale è ora sulla graticola perché, dopo aver portato, ma nel lontano 2019, la Lega a superare il 30%, l'ha fatta scendere alla modeste dimensioni da partito medio-piccolo. Ma la legittimità della crocifissione del segretario leghista ci convince fino a un certo punto. Prima di tutto perché la responsabilità è quella, evidentemente, di tutto un gruppo dirigente che ne ha condiviso le scelte, fino alle ultime di favorire la caduta di Draghi. E poi perché questo gruppo lo ha spinto, nel 2021, al passo che probabilmente è stato elettoralmente fatale, cioè l'ingresso nel governo Draghi. Il declino della Lega era iniziato anche prima, ma certo la partecipazione al governo è stato un pugno in faccia all'elettorato salviniano, diverso da quello leghista storico. Questo elettorato, che veniva dai 5 stelle, e che li aveva lasciati deluso, è un magma populista, anti sistema, che dal governo dell'Italia si attende una rivoluzione: di che tipo, non lo sa neppure lui. Ma certo è un elettorato che mal sopporta la mediazione e il compromesso. Che invece sono fondamentali per governare. Per questo Salvini fece benissimo, e gli va dato merito, ad appoggiare Draghi: anche perché, senza la Lega, forse Draghi non si sarebbe neppure speso. Semmai, l'errore di Salvini, e su questo hanno ragione i suoi critici interni, è stato quello di non assumere fino in fondo l'identità moderata e di essere rimasto in mezzo al guado, né davvero governativo né davvero di opposizione. La formula del «partito di lotta e di governo» aveva portato sfortuna a Berlinguer, dotato di un elettorato militarizzato, figuriamoci a Salvini. L'altro errore di Salvini, o meglio il suo fallimento, è consistito nell'aver cambiato l'identità della Lega originaria di Bossi, cioè un partito autonomista e federalista, sindacato del territorio, per cercare di trasformarlo in un'entità sovranista e nazionalista, né di destra né di sinistra; una versione italiana del progetto lepenista. Ma alla fine questo partito l'ha costruito Meloni, che partiva da coordinate politico culturali maggiormente adatte. Oggi la Lega di Salvini non è un partito veramente nazionale, ma non è neppure più quello federalista di un tempo. Ora ci pare di capire che i suoi critici chiedano questo, alla Lega di tornare alle sue origini. Cosa possibile, e forse anche auspicabile, probabilmente con un altro segretario. Anche se spostare indietro le lancette dell'orologio, nella vita come in politica, è quasi sempre impossibile. La lega bossiana era implementata al Nord, mentre ora quei territorio, e persino i mitici imprenditori, guardano in direzione di Meloni. Inoltre, rivendicare il federalismo negli anni Novanta del secolo scorso era un conto, rivendicarlo ora, quando lo Stato nazionale ha devoluto un gran numero di poteri, non tanto verso le Regioni quanto verso Bruxelles, è un altro. Infine, la Lega di Bossi come quella di Salvini erano partiti del capo carismatico.

Solo che rimpiazzare un capo non è mai facile. E, anzi, è più probabile che una figura sbiadita faccia precipitare ancora di più i consensi. Ai militanti leghisti l'onore, e l'onere, di risolvere, democraticamente, la questione.

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