Cronache

Ma chiamatela in altro modo

Ma chiamatela in altro modo

Siamo da sempre fautori della massima libertà in qualsiasi espressione della nostra vita. Figuriamoci se non lo siamo anche in cucina, territorio di godimenti vari oltreché necessari. Nel nostro mondo ideale c'è spazio per tutti: vegetariani, vegani, flexitariani, pescetariani, perfino per sottotribù ai limiti della stravaganza come il paleodietisti, gli alcalini e i biblisti. Ognuno mangi quello che vuole, come vuole, quando vuole a patto che non rompa i carboidrati agli altri.

Comprendiamo anche che mangiare sia atto eminentemente politico. Dentro ogni cibo ci sono ingredienti culturali, sociali, economici, sindacali, ambientali, etici che rendono l'esplorazione di un menu per una persona sensibile ardua come la scheda elettorale con il Porcellum (a proposito). Al di là delle macroscelte alimentari conosciamo persone che non mangiano foie gras, che aborrono il tonno rosso, che non cucinano l'aragosta per non sentirla agonizzare, che rifuggono dall'olio di palma, che evitano come la peste il pollo d'allevamento, che sbocconcellano solo cioccolato equosolidale perché certamente non sfrutta il lavoro di bambini nelle piantagioni di cacao. E va bene tutto, ognuno sceglie come vivere non potendo scegliere come morire.

Inoltre siamo apertissimi alle istanze «gretine» del cibo, all'attenzione all'impronta ambientale di quello che finisce nel nostro piatto. È giusto non contare solo i grassi o le calorie di un alimento, ma anche quanto carbone e quanta acqua vengano sprecati per produrlo. E certo che la carne è uno dei cibi più odiati dai millenaristi del clima, perché allevare bestiame è impresa ambientalisticamente pesantissima.

Quindi esultiamo per l'hamburger vegetale lanciato da Burger King, anche se vai a vedere i dati nutrizionali quando te ne mangi uno devi fare un'ora e mezza di spinning per smaltirlo. Ma la scelta aumenta la libertà di tutti, anche quando si tratti della circostanza che esista una polpetta senza carne a 3,99 euro.

Esultiamo, quindi, ma facciamoci un piacere: quel medaglione di soia e legumi pressati e colorati in qualche modo di rosso, non lo chiamiamo hamburger, non lo definiamo carne vegetale. Che bisogno c'è? Ai grandi valori non servono le mistificazioni.

E l'ipocrisia, anche lessicale, inquina e ingrassa quanto un chilo di fassona.

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