La chiusura dell'Ilva di Taranto vale tutta la flessibilità dell'Ue

L'allarme sul nostro Pil. In fumo 3,5 miliardi l'anno, che è quanto l'Europea ci ha concesso. Pure l'indotto trema

La chiusura dell'Ilva di Taranto vale tutta la flessibilità dell'Ue

L'alternativa è tra perdere una decina di miliardi dei contribuenti con una statalizzazione dagli esiti incerti. Oppure amputare la realtà industriale più importante del Mezzogiorno e zavorrare l'economia Italia (che peraltro anche senza questa cura sembra non avere nessuna voglia di decollare) sottraendo al Paese più di tre miliardi di euro all'anno di ricchezza prodotta. L'impatto economico dell'addio di ArcelorMittal agli stabilimenti siderurgici di Taranto è finito più volte al centro degli scontri tra chi farebbe il possibile per mantenere l'ex Ilva in funzione e chi, più o meno apertamente, tifa per una chiusura. Ha fatto scalpore il calcolo di Svimez (associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno) sui contraccolpi di una chiusura. Sono 3,5 miliardi di euro all'anno. Concentrati per la gran parte al Sud. Questo significa che lo 0,2% del Pil è da ascrivere agli stabilimenti che esponenti della maggioranza vorrebbero trasformare in un allevamento di cozze. Due punti base di Pil sono una misura importante, se si considera - come ha confermato due giorni fa Confcommercio - che l'economia italiana è in stagnazione.

Ma le scelte (o le non scelte) sull'ex Ilva non potranno che avere un peso anche sui conti pubblici del 2020. Il Pil sottratto vale quanto la flessibilità massima che l'Unione europea è disposta a concederci. Oppure, dal punto di vista opposto, con la chiusura dell'Ilva l'Italia ha già bruciato il margine di manovra che Bruxelles di solito riconosce ai paesi che hanno subito calamità naturali. Tra gli effetti collaterali non considerati, la chiusura degli altiforni potrebbe anche farci perdere quel minimo vantaggio che ancora avevamo rispetto alla Francia come seconda economia manifatturiera subito dietro la Germania. Se si guarda al Mezzogiorno, la chiusura dell'Ilva di Taranto più che una frenata rappresenta una brusca accelerazione delle retromarcia innescata da tempo. I principali osservatori davano il Sud in recessione prima delle novità sull'acciaio. Le prossime proiezioni non potranno che registrare il resto e sottrarre al Pil del Sud altri 2,6 miliardi. Evaporeranno 10 mila buste paga, immediatamente visibili. Poi saranno cancellati circa 3.000 posti di lavoro dell'indotto e altri 3.000 delle attività economiche indirettamente legate agli stabilimenti di Taranto. I trasportatori hanno già smesso di caricare le bobine made in Taranto. Le ditte di pulizia, i fornitori e persino le mense degli stabilimenti potrebbero fermarsi presto. Dal 2012 a oggi le traversie dell'Ilva sono già costate 23 miliardi. Ci sono 7,3 miliardi, persi dal Nord.

Senza l'acciaio del Sud i produttori di componentistica per auto, i produttori di elettrodomestici e anche tante piccole e medie imprese perdono un approvigionamento importante. Quando si creerà questo spazio ci saranno sicuramente altri produttori pronti a colmarlo. La ferita all'economia italiana e del Sud, invece, sarà difficilmente rimarginabile.

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