Cieco per una fucilata in faccia oggi cattura i suoni del silenzio

"L'ho fatto per Michelangelo Antonioni poco prima che morisse, scoprendone 64". Iniziò col registratore Geloso. Gli hanno dedicato un film: "Ma non lo sento mio"

Cieco per una fucilata in faccia oggi cattura i suoni del silenzio

Se davvero esiste quello che i greci chiamavano pneuma e gli ebrei ruah, il soffio vitale insufflato dentro uomini e animali, c'è una sola persona al mondo in grado di catturarne il suono e questa persona si chiama Mirco Mencacci. Qualcosa di simile gli è già riuscito nel 2004, quando Michelangelo Antonioni gli chiese di cercare «il suono del silenzio» per il cortometraggio Lo sguardo di Michelangelo, in cui l'unico attore nella basilica romana di San Pietro in Vincoli era lo stesso regista, sovrastato dalla maestà del Mosè, la più taciturna delle statue, quella che, secondo la leggenda, appena scolpita ricevette una martellata sul ginocchio dal Buonarroti, accompagnata da una sconfortata domanda: «Perché non parli?». Qualsiasi parola, qualsiasi musica sarebbero state inutili per illustrare il capolavoro scultoreo, psicanalizzato nel 1914 da Sigmund Freud. E così Mencacci s'è calato in quel silenzio che perdura da mezzo millennio per scoprire solo alla fine che conteneva 64 suoni diversi: il respiro di Antonioni, i passi incerti dei piedi strascicati nella navata, un colpo di tosse, il tintinnio della fede matrimoniale sul marmo di Carrara, lo scricchiolio delle panche. «Al mixaggio, il maestro era entusiasta. Fu il suo ultimo film. Il giorno in cui morì, ricevetti in taxi a Roma la telefonata della moglie Enrica. Corsi a casa sua. Mi lasciò da solo accanto al marito appena spirato. Gli tenni la mano ancora calda. Fu un momento meraviglioso, capisco che dirlo di fronte alla morte sembra stonato. Ma la mano è come la voce: racconta tutto di una persona. Enrica volle che Lo sguardo di Michelangelo fosse proiettato qui a Lari, il mio paese. In chiesa».

Nato nel reparto maternità di Pontedera il 17 luglio 1961, Mencacci ha sempre vissuto in questo antico borgo arroccato su un colle della Toscana. Fino all'età di 4 anni ci vedeva. Poi dovette imparare a riconoscere il mondo dai suoni e gli uomini dalla voce, o dalle mani, perché diventò cieco. Fu una disgrazia. Con la sorellina Resi, 8 anni, aveva accompagnato il padre Bruno nell'orto di nonno Ernesto a prelevare i pomodori appena raccolti. «Purtroppo il nonno teneva appeso a un albero un fucile sempre carico per sparare alla selvaggina di passaggio. Resi imbracciò la doppietta, me la puntò al viso e tirò il grilletto. Il primo colpo non partì, il secondo sì. Bastarono pochi pallini per farmi perdere la vista: due in quest'occhio e tre in quest'altro. Mio padre raccontava che continuai lo stesso a camminare, pur con la faccia insanguinata. Già, la vita va avanti».

Mencacci è un sound designer. Il migliore al mondo, e questo lo dico io, ché lui non è certo il tipo da ammetterlo. Lavora nei luoghi più impensati con sei microfoni direzionali montati su aste e rivestiti da protezioni paravento in pelo, captando ciò che non è alla portata dell'orecchio umano. In Italia lo qualificano come tecnico del suono, ma la definizione è riduttiva. Pensare alla sceneggiatura sonora di un film prim'ancora che venga girato, «perché ci sono suoni che con certe musiche non funzionano, per via delle tonalità»: è questo il suo lavoro. Ne ha fornito saggi eccellenti con registi come Ferzan Özpetek ( Le fate ignoranti), Marco Tullio Giordana ( La meglio gioventù e Quando sei nato non puoi più nasconderti), Fausto Brizzi ( Notte prima degli esami), Michael Beltrami ( Promised land).

Anche la storia della sua vita ha ispirato un film, Rosso come il cielo, vincitore del David di Donatello sezione giovani. Inizialmente Mencacci ha collaborato con il regista Cristiano Bortone, ma alla fine si è dissociato: «La sceneggiatura è stata stravolta, il film non lo sentivo più mio». Nella trasposizione cinematografica Mirco ha 10 anni, fa partire accidentalmente da solo il colpo di fucile e finisce in un istituto per ciechi, governato da suore un po' arcigne. Nella realtà i genitori attesero che il loro bambino compisse 7 anni prima di mandarlo a frequentare l'Istituto David Chiossone di Genova per ciechi e ipovedenti. Quando ne uscì, i suoi si consultarono con i familiari di Andrea Bocelli, che aveva perso la vista per colpa di una pallonata: «Volevano capire che cosa fosse meglio per me. Il tenore è originario di Lajatico, 25 chilometri da qui. Siamo diventati amici».

A 12 anni, Mencacci poteva ancora vedere la luce, ma non i colori. Poi, nonostante due interventi chirurgici, anche quel mare lattiginoso in cui galleggiava si è oscurato. Ciò non gli ha impedito di svolgere una vita normale: «Fino ai 30 anni sono andato in bicicletta alla cieca, è il caso di dirlo, senza mai un incidente. Ero la disperazione dei miei genitori, pace all'anima loro». Anche oggi mi viene incontro senza accompagnatore, senza cane guida, senza bastone. Scende svelto la stradina di Lari che dall'abitazione conduce alla sua casa discografica Sam. Sale con sicurezza le tre rampe di scale ripide che portano agli studi di registrazione dove vengono a incidere i loro cd il jazzista Jacopo Martini, il chitarrista classico Fabio Montomoli, gli Zen Circus, gli One Dimensional e tanti altri gruppi. Apre le porte, accende le luci e gli impianti di amplificazione, regola l'aria condizionata. Senza mai sbagliare un colpo.

Ma come fa?

«Uso l'ecolocalizzazione, come i pipistrelli. Uno schiocco della lingua mi dà le distanze degli oggetti intorno a me. Posso misurare le dimensioni di una stanza o il peso di una persona. Lei, per esempio, mi pare che stazzi oltre i 100».

Bingo.

«Riesco a indovinare le forme delle auto parcheggiate ai lati delle strade o il numero delle bottiglie presenti su un tavolo. Solo il rumore mi confonde».

«Toccando il viso di una persona si può capire se è bella o brutta», dice a Mirco la ragazzina di Rosso come il cielo . «Bisogna sentire anche la voce», ribatte il suo alter ego nel film. È davvero così?

«La voce è lo specchio dell'anima. Difficile camuffarla per ingannare il prossimo. Lei, per esempio, non mi sembra timido, sa in quale direzione vuole andare, ha idee ben precise e le difende».

Quando ha sviluppato questa sensibilità per voci e suoni?

«A 3 anni, grazie a un amico, Luca Baroni, che possedeva un magnetofono Geloso. Mi sembrava un miracolo riascoltare i nostri discorsi. A 7 anni, ormai cieco, convinsi mio padre a comprarmi il primo National a cassette. Registravo tutto. Da allora non ho più smesso».

Sua sorella s'è colpevolizzata?

«Ha superato il trauma. Ci volevamo bene prima, ce ne vogliamo oggi. È biologa».

Che mestiere faceva suo padre?

«S'era rassegnato a guadagnarsi da vivere come camionista. Ma era una mente eccelsa, aveva studiato da ingegnere elettrotecnico. Con i fratelli Emilio ed Enrico inventava di tutto».

Qualcosa ha preso da loro.

«Sam, la mia azienda, significa Sistemi audio di memorizzazione. Nel 1980 avrei potuto costruire il primo registratore digitale al mondo. Mi rivolsi a un ingegnere di Torino. “Sei troppo avanti”, mi rispose. Dieci anni dopo ci riuscì l'americana Digidesign, fabbricandolo esattamente come l'avevo pensato io».

Che studi ha fatto per arrivarci?

«Niente di specifico. Sono un autodidatta. Ho smesso di studiare in seconda liceo scientifico. Mi annoiavo. Preferivo andare all'Università di Pisa con la mia fidanzata a seguire in veste di uditore le lezioni di lettere, anatomia, veterinaria. Quelle di scienze politiche me le sono sorbite tutte per cinque anni».

La ragazza è diventata sua moglie?

«No. L'ho lasciata dopo 20 anni. Ora vivo con Cecilia, architetta. Abbiamo due figli, femmina e maschio: Safi, 4 anni e mezzo, e Suni, 3, che è nato il giorno del mio compleanno. Safi in swahili significa puro. Custodisco registrate le sue prime cinque ore di vita. Suni era il capostipite dei sunniti. Ho scelto questi nomi solo per il loro suono. Ne ho esaminati 6.000 dei cinque continenti, prima di trovare quelli giusti».

Quanti file sonori conserva in archivio?

«Impossibile contarli. Tenga conto che solo per mezz'ora di pellicola registro come minimo 150 ore».

E che cosa registra?

«Nel Qatar il rumore del deserto per un film di prossima uscita del regista Yuri Ancarani . Oppure il respiro del vulcano a Stromboli per Fascisti su Marte di Corrado Guzzanti. Sono stato in una camera iperbarica su una nave-cantiere finlandese in mezzo all'Adriatico, vicino a una piattaforma per l'estrazione del gas. Ci vivono i sommozzatori che eseguono riparazioni sulle condutture a 150 metri di profondità. Scendono negli abissi per 8 ore, risalgono e subito vengono rinchiusi lì dentro. Nove persone in un tubo che misura 2 metri per 5. Le loro voci diventano piccoline, come quella di Paperino. Fanno 21 giorni di lavoro così e uno di decompressione, poi bisogna dargli il cambio altrimenti scoppiano».

Perché non ha un cane guida?

«Lo avevo, Jessy, una femmina di pastore tedesco. È morta nel 1992 e non ho più voluto rimpiazzarla per non dover riprovare lo stesso dolore. Me la sogno ancora di notte pur senza averla mai vista. Le dicevo: portami da mamma. E Jessy, non so come, mi accompagnava da mia madre».

So che ha fatto piangere le ragazze anoressiche degenti alla Fondazione Stella Maris di Calambrone, raccontando, a loro che vedono tutto nero, i colori e i suoni della vita.

«Ah, di questo non mi sono accorto, essendo cieco. Non volevo invadere il loro territorio. Le ho solo invitate a presentarsi con nome e cognome e le ho fatte parlare. M'interessava stabilire un contatto vocale. Ho spiegato loro che la cecità mi ha portato fortuna, mi ha regalato soddisfazioni e fama. Anche gli eventi negativi hanno sempre un lato positivo. Tutti soffriamo per qualche mancanza e la privazione della vista è fra le peggiori. Ma può essere compensata, basta volerlo. Me l'hanno insegnato i miei genitori».

In questo momento, mentre parliamo, che colore sta vedendo?

«È difficile da spiegare. I colori sono diventati materia, per me. Il bianco corrisponde al liscio, il giallo è pastoso. Vedo la luce soltanto nel sonno. Mentre dormo, gli oggetti riacquistano tattilità. Di mio padre vedo gli occhi mobili. Sogno la sua voce. La mia Jessy la vedo come se fosse dentro di me, nell'involucro del mio corpo: le sue orecchie morbide coincidono con le mie, il suo muso è proteso davanti al mio naso».

Che colore ricorda più d'ogni altro?

«Il rosso. Ma non il rosso come il cielo al tramonto che dà il titolo al film. No, il rosso dell'autocarro Scaligero dell'Autobianchi che papà, poverino, s'era da poco comprato».

Se cerca di rivedere in sequenza alcune immagini rimaste impresse nella sua retina, che cosa le appare?

«Lo spazio. Il mare di Livorno. La mezza luna in cielo. Ancora il camion di papà. Il terrazzo di casa. Le blatte».

Le blatte?

«Io che di sera sposto una pila di laterizi rimasta inutilizzata in un angolo del terrazzo. Un esercito di blatte che esce da sotto l'ultimo mattone e si spande in ogni direzione».

È proprio convinto d'aver restituito ad Antonioni il suono del silenzio? Non esiste. Oggi viviamo avvolti nel rumore dalla nascita alla morte.

«È vero. Il rumore è il secondo inquinante del pianeta dopo l'aria. Ogni anno 210.000 europei muoiono per varie cause provocate dal frastuono, soprattutto infarto, lo dice l'Organizzazione mondiale della sanità. E altri 80 milioni soffrono per lo stesso motivo di malattie psichiche, patologie cardiovascolari, disturbi dell'apparato digerente e del sistema endocrino, ipertensione, stress. Vorrei aiutarli a guarire».

Come?

«Con il Parco del suono, un centro di ricerca immerso nel verde che farà colloquiare tra loro varie discipline. Ho coinvolto l'Istituto di biorobotica della Scuola superiore Sant'Anna di Pontedera e gli scienziati di sei Paesi dell'Unione europea. Il suono è ingegneria, architettura, psicologia, religione. Un rumore o una voce vengono elaborati dal cervello in 140 millisecondi, un'immagine in 180. Il suono arriva prima, ha una potenza evocativa enorme sull'uomo».

Che cosa la angustia di più nella sua condizione? L'handicap in

sé o la commiserazione della gente?

«Non poter girare il mondo. Intendiamoci, viaggio lo stesso, sono stato in Gran Bretagna e in Spagna da solo. Ma non riesco a farlo come vorrei. Mi manca il bene più grande: la libertà».

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